Nel 1288 il conte Ugolino della Gherardesca, capitano del popolo, ebbe la peggio contro la fazione ghibellina capeggiata dall’arcivescovo Ruggieri. Come attestano fonti di poco posteriori, la Piazza delle Sette Vie (poi Piazza dei Cavalieri) fu il teatro sia delle iniziali trattative, sia della successiva violenta contesa armata. L’episodio si sarebbe concluso con l’incarceramento e la morte di Ugolino nella Torre della Fame, resi eterni dalle celebri rime dantesche.
Nella continua evoluzione storica degli usi e dei significati che le comunità attribuiscono ai luoghi pubblici, nella lunga stagione medievale Piazza dei Cavalieri (prima della riforma medicea nota con il nome di Piazza delle Sette Vie) è stata anche un’arena di contesa armata tra le fazioni che animavano la vita politica del Comune. L’espressione ‘prendere la piazza’, che si ritrova in alcune fonti cronachistiche antiche, indicava, per via di metonimia, l’occupazione manu militari del centro amministrativo della città e dunque il suo controllo politico. Il caso forse più clamoroso riguarda lo scontro che precedette l’imprigionamento di Ugolino della Gherardesca e dei suoi familiari. La fonte più «linguacciuta», per usare la felice espressione di Mauro Ronzani, che descrive cioè con dovizia di particolari l’episodio, è costituita dai Fragmenta historiae pisanae. Scritta probabilmente alla fine del XIII secolo, questa cronaca anonima narra gli eventi di Pisa dal 1190 al 1293 (con una coda di diversa impostazione incentrata sul periodo 1327-1336). L’unico manoscritto a tramandarla è l’Additional 10027 della British Library, mentre una copia a stampa ci giunge dal meritorio lavoro dell’erudito Ludovico Antonio Muratori che pubblica il testo nella sua opera Rerum Italicarum Scriptores. Sebbene sia difficile ipotizzare fondatamente l’identità dell’autore o l’ambiente di produzione del testo, diversi dettagli narrativi (in particolare circa le responsabilità della morte dei prigionieri) inducono a ritenere un orientamento non marcatamente ostile a Ruggieri e al fronte Ghibellino.
Nell’ottobre 1284 Ugolino viene eletto podestà, incarico che di lì a pochi mesi gli sarebbe stato attribuito in via eccezionale per dieci anni. Ad affiancarlo nel suo compito il nipote Nino Visconti, che nel 1286 assume la carica di Capitano del Popolo. Dopo una coabitazione burrascosa ai vertici del comune, i diarchi scambiano i propri ruoli: Ugolino assume la carica di capitano del popolo, trasferendosi nel palazzo dell’omonima magistratura su Piazza delle Sette Vie, mentre Nino diventa podestà. Il 30 giugno 1288, mentre Ugolino si trova nel suo castello di Settimo, nel contado pisano, Nino viene allontanato dalla città (con probabile sostegno dello stesso Ugolino) da una cordata ghibellina guidata dall’arcivescovo Ruggieri, che si insedia nel Palazzo del Comune. Rientrato precipitosamente, il conte comincia una delicata trattativa sui futuri assetti del governo in San Sebastiano alle Fabbriche Maggiori (nel sito sul quale sorge oggi la chiesa di Santo Stefano dei Cavalieri) che si protrae fino al primo luglio. Riportano i Fragmenta: «lo dicto conte, e l’arcivescovo l’autro die di calende luglio la matina funno insieme in de la chiesa di Santo Bastiano, e non s’acordonno la matina, e doveanovi tornare di po’ nona». Durante una pausa dell’incontro filtra la notizia che Brigata, nipote di Ugolino, stava cercando di aprire le porte cittadine a Tieri Bientina, genero del conte, a capo di una compagnia di mille uomini armati. I maggiorenti della fazione avversa, temendo un tradimento, ingaggiano un’aspra contesa armata.
La narrazione dello scontro si apre con una nota sonora: le campane poste sui palazzi delle due più alte magistrature suonano a sostegno delle fazioni in lotta: quella «del Popolo» nell’omonimo palazzo per Ugolino, mentre quella del Palazzo del Comune (posto in Piazza Sant’Ambrogio, nell’area dell’attuale Piazzetta Lischi, già del Castelletto) per l’arcivescovo. Gli scontri a piedi e a cavallo si dispiegano nelle vie prospicienti la piazza: San Frediano, San Sebastiano (attualmente identificabile con Via Consoli del Mare) e «l’autre vie». Lo scontro fu cruento: registrò alcune vittime illustri (tra cui il nipote dell’arcivescovo Ruggieri) e durò all’incirca mezza giornata («da di po’ nona in fine a presso a di po’ vespero»: da mezzogiorno inoltrato al tramonto). Le forze ghibelline prevalsero infine su quelle del conte, che si vide costretto a ripiegare. Asserragliato con la famiglia all’interno del Palazzo del Popolo (o Palazzo degli Anziani, con particolare riferimento all’ala di destra – per chi guarda – dell’attuale Palazzo della Carovana), cominciò così l’ultima fase del conflitto. Gli uomini fedeli a Ruggieri (secondo la cronaca di Giovanni Villani, tutto il popolo pisano) assaltarono da ultimo l’edificio «con fuoco, e per battaglia», vincendo le ultime resistenze e imprigionando il conte «traditore» con i suoi familiari.
Attestata nelle delibere comunali tra Duecento e Trecento, la Festa dell’Assunzione era preceduta alla vigilia da un un corteo che prendeva probabilmente le mosse dal Piazza delle Sette Vie (futura Piazza dei Cavalieri), riccamente addobbata per l’occasione, e accompagnava gli anziani e il capitano del popolo (massime magistrature pisane) alla Cattedrale, dove venivano recati in dono ceri.
Una delle solennità più importanti della Pisa medievale è senz’altro quella legata al culto dell’Assunta. In essa si celebra, secondo un’antica tradizione cristiana, l’assunzione al Cielo della madre di Gesù Cristo, la Vergine Maria. Le fonti che riportano con dovizia di particolari i preparativi e poi il cerimoniale delle celebrazioni sono gli Annali pisani redatti dall’erudito seicentesco Paolo Tronci, nonché una serie di documenti ufficiali conservati presso l’Archivio di Stato di Pisa e l’Archivio dell’Opera del Duomo. Lavoro meritorio della scuola storica italiana, Pietro Vigo, in un testo del 1882 poi rifuso in un volume più ampio pubblicato nel 1888, ricostruisce con acume e accuratezza questo importante frammento della vita comunale, in parte lavorando sulle fonti d’archivio, in parte recuperando la descrizione che Tronci fa della festa, ascrivendola all’anno 1292.
Come per la processione del Corpo di Cristo, anche per l’Assunta la formalizzazione da parte delle istituzioni pubbliche dello svolgimento delle due giornate di festa (la vigilia del 14 agosto e le celebrazioni vere e proprie del giorno successivo) era pervasiva. Difficile stabilire una data di inizio delle celebrazioni: è certo, tuttavia, che le delibere comunali proseguirono per tutto il XIII e XIV secolo. Con congruo anticipo (vi è tuttavia divergenza sul punto tra le fonti) le celebrazioni erano annunciate attraverso un bando pubblico. Del compito erano incaricati venti giovani cittadini che sfilavano, disposti in due file appaiate, per le vie di Pisa. Essi indossavano «abiti ricchissimi e di forma assai bizzarra», mentre i cavalli erano «coperti tutti di panno scarlatto con le armi della Comunità». I primi due giovani portavano la bandiera del Comune e quella del Popolo, i successivi due i vessilli imperiali, mentre la terza coppia due aquile vive simboli della Repubblica. Il corteo era poi chiuso da un seguito di trombettieri e pifferai. Piazza delle Sette Vie (attuale Piazza dei Cavalieri) era in quel giorno di bando coronata di bandiere. Come riporta Tronci (da cui tuttavia si distanzia Vigo), su tutte le torri della città (che egli quantifica in ben sedicimila) venivano posti i vessilli del Comune, del Capitano del popolo e l’aquila imperiale. Tale pratica risulta anche per le sedi delle magistrature cittadine: quindi per il Palazzo degli Anziani e del Capitano del Popolo.
Dai documenti è possibile dedurre che, durante la vigilia della festa, la piazza fosse il punto di partenza di un ricco corteo che avrebbe portato gli Anziani e il Capitano del popolo – i rappresentati delle più alte magistrature pisane alloggiavano negli edifici che ivi si affacciavano – alla cattedrale primaziale di Santa Maria Assunta per le celebrazioni del vespro. «In gran pompa e maestà», gli Anziani erano preceduti nel corteo che li avrebbe condotti alla Primaziale da «donzelli vestiti di nuova livrea e così i trombetti accompagnati dal Capitano colle sue masnade e da tutti gli altri inferiori magistrati».
Altro aspetto centrale della cerimonia era l’offerta (in realtà obbligatoria e dovuta da tutti i cittadini, nonché dai borghi e villaggi del territorio pisano) di ceri da depositare presso il Duomo la sera della vigilia. Come ricorda Vigo «tre giorni prima dell’Assunzione, il podestà faceva prescrivere a ciascuno, sotto pena da darsi a suo arbitrio, di andare a presentare al Duomo il proprio candelo, affinché tutte quante le offerte fossero quivi recate nell’ordine consueto». Persino la foggia dei ceri cui dovevano provvedere le più alte magistrature era accuratamente prescritta dalle ordinanze pubbliche. Dai documenti emergono dettagli vividi: i “candeli” si trasformavano in complesse elaborazioni artistiche grazie al lavoro di artigiani specializzati. Istoriati, dipinti, spesso decorati con l’applicazione di vessilli e frange. Quello degli Anziani – con ogni probabilità il più ricco – era ornato, ad esempio, da «fimbria e pennones» (frange e stendardi). Il cerimoniale di presentazione dei candeli al Duomo prevedeva un corteo complesso: sebbene manchino riferimenti specifici, è legittimo ipotizzare che la processione di offerta del cero degli Anziani partisse proprio dalla Piazza delle Sette Vie: posto su una «trabacca» (per Vigo si tratta di un padiglione probabilmente collocato su di un carro per preservare il candelo dagli agenti atmosferici), veniva accompagnato da ventisei uomini pagati per l’occasione dal Comune e da suonatori di tromba.
Piazza delle Sette Vie costituiva dunque anche nelle celebrazioni dell’Assunzione uno dei fulcri della vita sociale della città di Pisa ai tempi della Repubblica: in essa avevano luogo tutte le cerimonie più rilevanti per l’ethos comunale, in grado di accrescere la concordia tra i poteri e l’unità dell’ordine civile e religioso. Questi documenti e queste celebrazioni ci permettono per altro di immaginare una piazza in continua evoluzione e sempre diversa a seconda degli impieghi: le decorazioni, i simboli, i palchi mobili, le processioni, financo la stessa folla andavano a comporre uno scenario di volta in volta cangiante, presentando uno spazio fisicamente identico ma sempre diverso.
Nell’occasione della visita a Pisa, nel 1312, all’imperatore Enrico VII venne regalato un leone probabilmente dal Comune, che nei decenni successivi risultò impegnato nelle spese per il mantenimento di un leone presente in città (forse non la medesima fiera offerta in dono). Questo impegno da parte delle magistrature cittadine ha suggerito di riconoscere il luogo di cattività dell’animale presso Piazza delle Sette Vie (successivamente Piazza dei Cavalieri), dove era attestata negli stessi anni una Torre del leone (Turris leonis).
Nella delicata situazione in cui Pisa si venne a trovare nel passaggio fra Due e Trecento – onerata dalle pesanti condizioni di pace imposte all’indomani della sconfitta della Meloria contro Genova (1284), stretta per terra dalle mire delle guelfe Firenze e Lucca e insidiata nei domini di mare dal papato che, in accordo con la corona aragonese, voleva sottrarre alla città il dominio sulla Sardegna –, le speranze del Comune si concentrarono su Enrico VII. Questi, eletto imperatore nel 1308, aveva subito espresso il proposito di guidare una campagna in Italia e, nella primavera 1310, aveva inviato ambasciatori a Pisa, come ad altre città, per sondare il terreno prima della propria calata. È in questo clima che i pisani, nel marzo 1310, si affidarono a Federico da Montefeltro, fra i più eminenti ghibellini italiani, a cui conferirono gli straordinari poteri delle cariche congiunte di podestà e capitano generale del Comune. Così facendo, rinnovellavano un rapporto con i Montefeltro già provato col padre di Federico, Guido, che aveva posto fine alla diarchia del conte Ugolino e di Nino Visconti.
Nello stesso 1310, appena ebbe varcato le Alpi, si fecero incontro all’imperatore Giovanni Zeno Lanfranchi e il giurisperito Giovanni Bonconti, per offrirgli l’incondizionato appoggio pisano, e, in novembre, altri cittadini pisani raggiunsero la corte ad Asti, dove giurarono fra i consiglieri del re.
Le speranze riposte da Pisa nella venuta di Enrico si manifestarono apertamente in occasione dell’arrivo in città, il 6 marzo 1312. L’imperatore giunse per mare, da Genova, e dopo lo sbarco fece una prima tappa in San Pietro a Grado, importante meta di pellegrinaggio; di lì raggiunse la città, dove fu accolto presso le mura dalla cittadinanza, che gli fece dono di un baldacchino purpureo tempestato di oro e gemme, descritto dal cronachista Ferreto Vicentino, e di una preziosa spada. Ad attendere l’«Alto Arrigo», come ebbe a dire Dante (Paradiso, XXX, 137), oltre alla cittadinanza pisana c’era il fior fiore dei fuoriusciti guelfi di Toscana, compreso probabilmente il famoso poeta, nonché il piccolo Petrarca, con il padre.
La prima sede a ospitare Enrico fu il palazzo arcivescovile, presso la chiesa primaziale pisana, che gli fu aperto dal vicario arcivescovile Enrico da Montarso. Il 17 marzo, infatti, furono stilati gli atti con cui l’imperatore prendeva il pieno dominio sulla città (che comportava la nomina diretta degli Anziani, nonché il ricevimento del giuramento di fedeltà da parte dei magistrati del Comune e dell’intera cittadinanza) e le cerimonie si svolsero davanti all’ecclesia maior della Beata Vergine Maria. Pochi giorni dopo, tuttavia, egli si trasferì con la corte a sud, nel quartiere di Chinzica, presso l’elegante palazzo dei fratelli Gherardo e Bonaccorso Gualandi.
Nelle pur ricche notizie che si addensano attorno ai due soggiorni dell’imperatore nella città, non si incontrano fatti o eventi degni di nota che abbiano come teatro l’odierna Piazza dei Cavalieri, che sicuramente, come centro nevralgico della vita politica pisana, vide svolgere, all’ombra dei suoi palazzi, celebrazioni e cerimonie pubbliche. È tuttavia importante da rilevare un particolare messo recentemente in luce dagli studi storici, ovvero la comparsa, fra le note di spesa della corte durante il soggiorno pisano, di pagamenti per il mantenimento di un leone, scalati il 28 marzo e il 15 aprile (prima della partenza da Pisa il 23 del mese). È possibile che la fiera fosse giunta in dono all’imperatore dal Comune pisano come regalo diplomatico, con un palese valore simbolico della dignità regale, ed è significativo che l’unico altro leone vivo tenuto in città nel Trecento e registrato dalle fonti fosse un animale di proprietà del Comune attestato nel 1317 e nel 1337. Due provvigioni risalenti a quegli anni, infatti, riguardano il mantenimento di un leone e la seconda (18 luglio 1337), in particolare, menziona un «nuntius camerae pisani Communis» (‘un messo della camera del Comune di Pisa’), che «dedit et dare debet pastum leoni pisani Communis» (‘diede e deve dare il pasto al leone del Comune pisano’). Pio Pecchiai, che aveva rinvenuto questi documenti a inizio Novecento, collegò la memoria del leone a una «Turris leonis» attestata nel 1330 presso Piazza delle Sette Vie, poi Piazza dei Cavalieri, e, anche se il toponimo potrebbe rispecchiare piuttosto un’insegna araldica che lo connotava, il riferimento resta plausibile. Nasce, perciò, la suggestiva ipotesi che durante il soggiorno imperiale a Pisa un leone, offerto in dono a Enrico VII, fosse mantenuto presso la piazza centrale del potere civico, al pari di altri animali simbolici che erano allevati negli edifici della piazza, come le aquile nella Torre della Muda. Per qualche tempo, in seguito, l’appellativo di Torre del leone sarebbe rimasto nella toponomastica, anche se, ci dicono i registri delle spese della corte, il leone donato a Enrico lo seguì fino a Roma, dove se ne perdono le tracce nella contabilità regia.
Attestata dal 1361, la celebrazione del Corpo di Cristo era celebrata a Pisa da un corteo che partiva dalla Cattedrale e qui si concludeva, dopo aver sfilato per varie strade ed essere passato per Piazza delle Sette Vie (futura Piazza dei Cavalieri), cuore politico della città. Questo nesso simbolico tra Piazza dei Miracoli e Piazza dei Cavalieri restituiva alla comunità medievale l’immagine potente dell’unitarietà e della concordia tra i poteri del Comune.
Nel Medioevo, le feste religiose – a Pisa come in molti comuni italiani – costituivano un momento centrale per la vita della comunità. La loro importanza è spesso desumibile dalla cura con cui le ordinanze pubbliche, stratificate in decenni di attività legiferativa, disciplinavano persino i dettagli più minuti di un cerimoniale articolato e rigoroso. I documenti relativi alle delibere degli organi civili e religiosi, in particolare per quanto attiene al XIII e XIV secolo (conservati presso l’Archivio di Stato di Pisa) registrano la marcata volontà di formalizzare un rituale decisivo per la vita del comune: dalla foggia e quantità delle offerte, ai costumi delle autorità, alla struttura dei cortei e al loro tragitto. In particolare, il percorso che si snodava tra le vie e le piazze cittadine era pensato per abbracciare simbolicamente a un tempo i luoghi del potere politico e quelli del potere religioso, restituendo una concordia ordinum che era anche alla base della religione civile del comune. Piazza delle Sette Vie, futura Piazza dei Cavalieri, diviene all’interno di tale cornice, uno snodo obbligato per tutte le cerimonie cittadine.
Come riporta l’anonima trecentesca Cronica di Pisa, la prima celebrazione della festa del Corpo di Cristo ha luogo il 27 maggio 1361. La stessa fonte ne attribuisce l’istituzione all’«Operaio di Santa Maria Maggiore, il quale avea nome Ser Bonagiunta Masca». Otto giorni prima, banditori ingaggiati dagli Anziani «a suon di trombe» chiamavano a raccolta le masse cittadine: «ogni persona, maschi e femmine, debbiano andare la mattina della festa del Corpo di Cristo a Duomo, alla Chiesa maggiore, e alla processione accompagnare lo Corpo di Cristo». Tutti i partecipanti erano tenuti a portare un cero, la cui dimensione era rigorosamente stabilita in base al rango del soggetto: i privati cittadini erano soliti portare ceri da mezza libbra o da una libbra («secondo la sua possibilitade»), mentre gli Anziani da due. La processione prendeva avvio dalla cattedrale primaziale di Santa Maria Assunta, proseguiva per Via Santa Maria, deviando poi (con ogni probabilità) per l’attuale Via dei Mille. Da qui imboccava Piazza delle Sette Vie, pagando così tributo al cuore politico della città, prima di proseguire in un percorso che l’avrebbe riportata in Duomo: «E si partì di Duomo per Via Santa Maria, ed alla Piazza delli Anziani, e per Borgo, e per di Lungarno dalla Piazza delli pesci, e del Ponte nuovo [struttura distrutta nel corso del XIV, che collegava Via Santa Maria a Via Sant’Antonio]; e per Via Santa Maria tornonno a Duomo». La connessione diretta tra Piazza dei Miracoli e Piazza dei Cavalieri restituiva l’immagine potente dell’unitarietà e della concordia tra i poteri del Comune.
Secondo la descrizione del testimone, il cuore del corteo era costituito dall’ostia (per i cattolici simbolo del Corpo di Cristo) custodita in un tabernacolo d’oro portato dall’arcivescovo. Il capo del potere religioso comunale era accompagnato dai canonici del Duomo che tenevano «un palio di seta drappo fine», mentre a seguire vi erano le massime cariche laiche: Anziani, Podestà, Capitano del Popolo, nonché il Vicario dell’imperatore. A chiudere il corteo «uomini e donne grandi e piccoli della Città». Dal racconto si deduce che tale cerimonia era preceduta («Levato lo Sole a due ore»: circa alle otto di mattina) da una processione di «Frati e di Preti e di tutte le Compagnie de’ Battuti della Città di Pisa, e poi l’Arcivescovo di Pisa». I Battuti erano membri di confraternite laiche cittadine use alla penitenza della flagellazione: «E tutti questi Battuti andavano battendosi col sacco in dosso, ciascuno col suo Gonfalone». Sebbene sia ammissibile ipotizzare che anche quest’ultimo corteo seguisse l’itinerario del maggiore e sfilasse quindi per Piazza delle Sette Vie, il cronista non è chiaro sul punto.
Per scongiurare il perdurare della peste tra il 1382 e il 1383, le magistrature cittadine si fecero carico dei permessi e delle spese per traslare le reliquie di san Guglielmo di Malavalle da Castiglion della Pescaia a Pisa; qui, dopo la solenne benedizione nella Cattedrale, vennero conservate nel Palazzo degli Anziani (poi Palazzo della Carovana) e furono oggetto di devozione da parte della cittadinanza.
L’endemia della peste nera in Italia a partire dal 1348, e il suo periodico riaffacciarsi in forme disastrose, è una costante che tocca tutte le realtà cittadine della Penisola. Non fa eccezione Pisa, che, dopo il 1348, subì violente ondate nel 1362, nel 1372, nel 1382-1383 e nel 1391. Fra queste, la pestilenza perdurata dall’estate del 1382 all’autunno del 1383 può essere presa come osservatorio privilegiato per indagare come la città reagisse al dilagare del morbo e a quali forme di spiritualità ricorresse, giacché essa è stata descritta con dovizia di particolari nell’anonima Cronaca (detta Roncioni), risalente alla fine del XIV secolo.
Il momento storico è quello della signoria di Pietro Gambacorti (1369-1392), il quale, nella parabola declinante delle istituzioni comunali a Pisa, aveva assunto le cariche di capitano di guerra e difensore del popolo, divenendo di fatto la principale autorità cittadina, nonostante la sopravvivenza degli organi di governo repubblicani.
A fronte dell’inanità dei pochi provvedimenti di ordine sanitario per porre un freno al contagio, sembra che il Comune reagisse in pieno accordo con le autorità ecclesiastiche nel promuovere quelle forme di spiritualità che più sembravano opportune per impetrare l’aiuto divino e la liberazione dal morbo. L’anonimo cronachista elenca le molteplici processioni succedutesi a partire dall’ottobre del 1383, con il concorso del popolo, del clero, ma anche delle magistrature cittadine, con il collegio degli Anziani, il Podestà e il Capitano del Popolo. Come è stato giustamente osservato da Cecilia Iannella, l’iter processionale probabilmente ricalcava quello tramandato dall’anonimo nel descrivere la prima processione del Corpus Domini, che si tenne a Pisa nel giugno del 1361. Essa principiò presso la cattedrale per poi proseguire su Via di Santa Maria e quindi giungere alla «piassa delli Ansiani», vale a dire la Piazza delle Sette Vie – poi Piazza dei Cavalieri –, quindi lungo il Borgo e percorrendo il Lungarno verso ovest fino al ponte, dove la processione imboccava di nuovo Via di Santa Maria per tornare al Duomo.
D’altra parte, le istituzioni comunali non si limitarono all’intervento nelle processioni religiose. L’anonimo, con altre fonti posteriori, addita chiaramente che fu il Comune a chiedere il permesso papale per traslare le reliquie di san Guglielmo di Malavalle da Castiglion della Pescaia a Pisa e ad animare una serie di manifestazioni religiose tese a propiziarsi l’assistenza del santo, considerato un protettore contro la peste. Le reliquie entrarono in città da Porta San Marco il 4 agosto 1383 e furono accolte dagli Anziani, nonché dal clero cittadino, dal popolo e dalle compagnie di battuti, fra le quali di certo ebbe la preminenza la compagnia di san Guglielmo, nata probabilmente un decennio prima, in occasione della peste del 1372, e committente, attorno al 1383, della bella insegna processionale di Antonio Veneziano, oggi conservata al Museo Nazionale di San Matteo. Al termine della processione, le reliquie furono portate in Duomo per una messa solenne, minuziosamente descritta dal cronachista; tuttavia, dopo la celebrazione, la cassa contenente le spoglie fu traslata nel Palazzo degli Anziani (poi Palazzo della Carovana), dove rimase, sorvegliata giorno e notte e chiusa da due chiavi, una delle quali deteneva il priore degli Anziani, l’altra l’abate dell’eremo di San Guglielmo a Castiglione. In quell’agosto, le processioni si ripeterono dal 10 al 13 e il 18 del mese, seguendo lo stesso itinerario, che terminava immancabilmente in Duomo, con la messa solenne, l’ostensione delle reliquie e, ricorda il cronachista, molte guarigioni miracolose ed esorcismi. Tuttavia, la stessa fonte precisa che tra il 16 e il 18 d’agosto le reliquie furono esposte mattina e sera alla devozione popolare presso il Palazzo degli Anziani, «in della chiostra giuso che vvi si fecie uno altare, e quine si mostravano le ditte erelique». Si trattava, dunque, di un luogo di culto approntato per l’occasione, in uno spazio semipubblico, dove i cittadini accorrevano, chi a donare una somma, chi a offrire candele, chi a baciare il feretro per ottenere la sperata guarigione. Le reliquie tornarono a Castiglione il 26 d’agosto; tuttavia, a Pisa il culto del santo eremita permase a lungo, come attestano le fonti iconografiche, nonché la sopravvivenza, fino al Settecento, della confraternita a lui dedicata.
Un’altra occasione in cui le istituzioni comunali ebbero a mostrare il loro protagonismo nel momento della peste furono le esequie del podestà Jacopo da Bologna, morto durante l’ondata del 1382. Le celebrazioni, spesate dal Comune, contemplarono la processione – e si vede bene che questa era la manifestazione più ricorrente del legame fra la cittadinanza e le sue istituzioni – dal Palazzo del Podestà, dove era stata esposta la salma, fino alla sepoltura in San Francesco.
Nella primavera del 1585, Francesco I de’ Medici ricevette a Pisa la visita di quattro giovani ambasciatori giapponesi, partiti da Nagasaki alla volta dell’Europa. L’occasione permise dal granduca di esibire la ricchezza dell’Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano e la magnificenza delle sue sedi: gli ospiti furono condotti in visita sia nel Palazzo della Carovana, sia nella chiesa di Santo Stefano, dove poterono presenziare a una cerimonia sacra.
A dare impulso alla spedizione era stato il gesuita Alessandro Valignano (1539-1606), Visitatore delle Indie, ansioso di esibire il felice esito dell’evangelizzazione e conversione alla religione cristiana condotte in Asia dalla Compagnia di Gesù. Valignano aveva a questo scopo selezionato quattro giovani rampolli di nobili famiglie giapponesi convertitesi al cristianesimo – Itō Sukemasu, battezzato Mancio, e Chijiwa Seizaemon, battezzato Michele, a rappresentanza dei signori feudali del Giappone; poi i nobili Nakaura Jingorō e Hara Nakatsukasa, che presero i nomi rispettivamente di Giuliano e di Martino –, affinché raggiungessero la Santa Sede e omaggiassero papa Gregorio XIII. La spedizione assunse a posteriori il nome di ‘Ambasciata Tenshō’ («Tenshō shōnen shisetsu», ossia «missione dei ragazzi nell’era Tensho»), e fu di fatto la prima ambasciata giapponese a raggiungere l’Europa.
L’eccezionale portata dell’evento è documentata da svariati libelli e cronache a stampa coeve, come le Relazioni della venuta degli ambasciatori giapponesi a Roma sino alla partita di Lisbona (1586) di Guido Gualtieri. Straordinario valore documentario ha poi il De missione Legatorum Iaponensium ad Romanam Curiam (1590), un dialogo ‘odeporico’ che intercorre tra i quattro giovani protagonisti, verosimilmente scritto in spagnolo da Valignano stesso e tradotto in latino dal gesuita portoghese Duarte de Sande. Dalla lettura di queste e altre fonti, sappiamo che dopo aver attraversato l’Oceano Indiano e aver affrontato una lunga circumnavigazione dell’Africa, i viaggiatori approdarono a Lisbona, fecero tappa a Madrid, alla corte di Filippo II, e, spostatisi ad Alicante, raggiunsero per via di mare la costa tirrenica della penisola italiana, sbarcando a Livorno; dopo aver visitato alcune città dello stato granducale, procedettero sino a Roma, dove Gregorio XIII accordò loro un’udienza privata il 23 marzo 1585. Nonostante il loro itinerario fosse stato accuratamente scandito da Valignano, furono numerose le deviazioni cui i principi nipponici dovettero acconsentire: una di queste lunghe digressioni avvenne alla corte medicea di Pisa, dove l’ambasceria sostò per cinque giorni, dal 2 al 7 marzo 1585.
Francesco I de’ Medici, che dimorava allora in questa città insieme alla granduchessa Bianca Cappello, ebbe così il privilegio di accogliere nel proprio stato, primo tra i governanti italiani, i viaggiatori. Approdati a Livorno il 1° marzo del 1585, i giovani giapponesi furono ricevuti da un suo emissario che li invitò a raggiungere il giorno dopo lo sbarco, su carrozze granducali, Pisa, dove «trovarono un palazzo per loro riccamente apparecchiato». Così decorosamente ricevuti da Francesco I, dai suoi fratelli Pietro e Ferdinando e dalla granduchessa, i missionari furono invitati a soggiornare nell’antica dimora pisana della famiglia, sita in prossimità della chiesa di San Matteo (oggi sede della Prefettura).
Una cinquecentina stampata a Firenze nel 1585 racconta che in quell’occasione Mancio, per compiacere le curiosità ‘etnologiche’ del granduca, si presentò al suo cospetto vestito degli abiti tradizionali giapponesi, sfoggiando «un paro di scarpe dilicatissime di corame di color mascherezato, con calzetti agucchiati di varii colori, […] un paro di calzoni pendenti in foggia turchesca fino sul collo del piede, tessuti di drappo d’oro, e di ricamo, con smeraldi, perle e rubini, […] una casacca lunga senza maniche, fino alla cintura ricamata di simili gioie, con superbissimi e ricchissimi lavori». Così mirabilmente abbigliato, il nobile Mancio – continua l’anonimo cronachista – sarebbe stato ritratto «in pittura dal Buontalenti». Di quest’ultimo aneddoto non si trova conferma né nella cronaca di Gualtieri, né nel De missione, dove si accenna soltanto alla viva ammirazione che le vesti tradizionali esibite dai giovani destarono nei granduchi.
L’agenda dei legati giapponesi, arrivati a Pisa tra la fine del Carnevale e l’inizio della Quaresima, si snodò tra eventi mondani e cerimonie sacre, oltre a visite ad alcuni monumenti cittadini. La sera stessa del loro arrivo, il gruppo si intrattenne a Palazzo Medici, dove la granduchessa Bianca stava ospitando un sontuoso ballo di corte; qui, come racconta un vivace brano del De missione, i giovani forestieri suscitarono l’ilarità generale dei nobili astanti, dimostrando la loro imperizia nelle danze europee.
Il giorno successivo, stando ancora alla stessa fonte, si dedicarono alla visita del «templum maximum miris sumptibus aedificatum» («il tempio maggiore [il Duomo di Pisa] costruito con grandi ricchezze»), e poi del «conventum eorum, qui Divi Stephani equites appellantur», ossia del «convento di quelli che sono chiamati Cavalieri di Santo Stefano», con ogni probabilità il Palazzo della Carovana. Dopo una breve digressione sui prestigiosi ordini cavallereschi fondati da principi e re di tutta Europa, Michele – colui che nella finzione dialogica del De missione sta descrivendo i giorni pisani – passa a raccontare la visita alle sedi dell’Ordine di Santo Stefano – la chiesa omonima e il palazzo conventuale – e a enumerare le grandi ricchezze dell’istituto cavalleresco. In questo contesto, il singolare status di Francesco I de’ Medici, accresciuto dal patrocinio di un ordine religioso-militare, dovette stupire i quattro viaggiatori, ai cui occhi il granduca risultò a tutti gli effetti pari a un re.
All’interno della chiesa di Santo Stefano, i quattro viaggiatori ebbero l’occasione di assistere e partecipare alla liturgia del Mercoledì delle Ceneri: il primo giorno di Quaresima del 1585, alla presenza di ottanta cavalieri stefaniani e, naturalmente, del loro gran maestro (lo stesso granduca), anche i giovani giapponesi ricevettero l’imposizione delle ceneri sulla fronte. Francesco I sedette su un alto seggio collocato in prossimità dell’altare maggiore, e di fronte a lui, in posizione altrettanto preminente, vennero accolti i quattro ospiti. Prima che il rito avesse inizio, i cavalieri, nei loro abiti cerimoniali, si inchinarono al cospetto dei forestieri, per poi genuflettersi dinnanzi all’altare e dignitosamente riverire il granduca con il baciamano. Al termine della messa, i viaggiatori poterono ammirare i moltissimi stendardi espugnati dalle galee stefaniane alle navi piratesche ed esibiti sulle pareti della chiesa a memoria delle vittorie conseguite dall’Ordine che – stando alla nostra fonte – poteva allora contare quattro navi, rapide e ben equipaggiate.
Nonostante nel 1585 fosse ancora priva della sua facciata, la chiesa di Santo Stefano non mancò di destare la viva ammirazione del gruppo: il narratore definisce la sua struttura architettonica «notevole come quella della sede dell’ordine», vale a dire il vicino Palazzo della Carovana. Questo edificio costituì l’ultima tappa del ‘tour’ pisano offerto da Francesco I ai giovani principi nipponici, che furono poco dopo invitati a proseguire verso Firenze. All’interno del palazzo, a ulteriore conferma delle trionfali imprese condotte dai Cavalieri di Santo Stefano, il gruppo di ambasciatori poté contemplare le «molte sacre reliquie, un ricchissimo tesoro, un armadio pieno di ogni specie di armi».
L’Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano desiderava possedere le spoglie del santo fin dal 1571, quando a Giorgio Vasari venne chiesto di adoperarsi in tal senso; all’epoca però le reliquie, anteriormente conservate in diversi luoghi di Roma, risultavano disperse. Nel 1611 vennero rinvenuti piccoli frammenti del corpo e alcune ampolle del sangue del santo nel monastero dei minori osservanti di Santa Maria della Colonna a Trani, che il granduca Ferdinando II de’ Medici cercò invano di ottenere.
Solo nel 1682, sotto il regno di Cosimo III de’ Medici, dopo lunghe trattative con le autorità civili e religiose di Trani, di cui il santo era ormai divenuto protettore, e a seguito di un breve di papa Innocenzo XI, le reliquie vennero concesse all’Ordine. Dopo il loro arrivo – via terra fino a Napoli e poi via mare – le sacre spoglie furono inizialmente conservate nella chiesa inferiore di San Benedetto, soggetta alla giurisdizione dei Cavalieri, i quali organizzarono la cerimonia di traslazione per la domenica in albis dell’anno successivo, il 25 aprile 1583, in concomitanza con la riunione del Capitolo Generale dell’Ordine, nel corso del quale si sarebbero rinnovate le cariche per tre anni.
Lo svolgimento della cerimonia, culminante in Piazza dei Cavalieri, e i ricchi parati che adornavano il percorso tra le due chiese sono descritti da alcune fonti – manoscritte e a stampa –, e da una lettera di Diacinto (o Giacinto) Maria Marmi, all’epoca guardarobiere granducale, che ideò gli apparati effimeri per l’evento. Concorrono a ricostruire la fastosa cerimonia i pagamenti ai numerosi artisti e artigiani conservati all’Archivio di Stato di Pisa, un nutrito gruppo di disegni – divisi tra Firenze, Pisa e New York – e un’incisione raffigurante proprio gli apparati della piazza. Il nucleo grafico era in parte funzionale a produrre una relazione a stampa dotata di illustrazioni, a oggi non rintracciata e forse mai pubblicata. La relazione doveva essere corredata di nove vedute della festa, commissionate a Domenico Tempesti e Bastiano Tromba. Nel Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi sono stati rintracciati sei disegni di Marmi, interpretati come schizzi eseguiti a cerimonia conclusa e poi forniti ai due artisti. I tre disegni presso l’Archivio di Stato di Pisa sembrano appartenere a una fase precedente, più operativa, risalente all’elaborazione dell’allestimento vero e proprio e, a mio giudizio, senza che sia certa l’attribuzione a Marmi. Nonostante l’effettiva esecuzione dei disegni da tradurre a stampa da parte di Tempesti e Tromba – testimoniata da un pagamento di 40 scudi –, una sola delle nove vedute, quella dell’interno di Santo Stefano, è stata rintracciata alla Pierpont Morgan Library di New York.
Nel corso della festa, attentamente ricostruita da Barbara Riederer-Grohs e soprattutto Franco Paliaga, l’urna con le reliquie venne levata dalla chiesa inferiore di San Benedetto ed esposta tra ceri e argenterie nell’altare di quella superiore, parata per l’occasione con arazzi rappresentanti storie sacre. La facciata di San Benedetto presentava un’impalcatura con pilastri, ricoperti di cotonina a scacchi bianca e turchina, che sorreggevano un fregio e un cornicione arricchiti da bandiere. Tra le allegorie della Pietà e della Giustizia era posto un arazzo raffigurante le gesta di Cosimo I de’ Medici (non facilmente riconoscibile nel disegno degli Uffizi).
L’urna venne posta sotto un baldacchino e portata in processione dal granduca Cosimo III in abito da gran maestro e da un seguito di quattrocento persone tra cavalieri e clero. Il corteo procedette sul Lungarno fino al Ponte di Mezzo, che costituiva un altro punto clou del percorso, segnalato al passaggio dal fuoco di mortaretti, oltre che dal ricchissimo parato: introdotto e concluso da due archi trionfali, prevedeva una copertura con tende ‘da galera’, fregi e altri panni colorati. Arazzi con le figure della Fede, della Speranza, dell’Allegrezza e del Dolore erano stati posti all’inizio e alla fine del ponte. Anche negli spazi tra i pilastri furono inseriti arazzi con figure allegoriche.
Lungo la Via del Borgo erano affissi una serie di arazzi con Storie dei Medici (Cosimo il Vecchio, Lorenzo il Magnifico, Clemente VII, Cosimo I), il cosiddetto parato ‘della Vigilanza’, il ciclo delle ‘feste fiorentine’, e altre serie dedicate a personaggi mitologici.
Un altro arco trionfale, su cui era stato apposto un episodio a chiaroscuro della Vita di santo Stefano, introduceva nella piazza, interamente circondata da un loggiato ligneo ad archi che sostenevano diverse serie di arazzi: tra queste le Storie di san Giuseppe e di Fetonte, il parato ‘degli Elementi’, le Nozze tra Enrico IV e Maria de’ Medici e singoli pezzi raffiguranti storie sacre. In piazza, ad attendere la processione, erano diversi esponenti della famiglia Medici: la granduchessa Vittoria della Rovere, i principi Ferdinando e Gian Gastone e il cardinale Francesco Maria, fratello del granduca.
Sciolto il corteo, si procedette a entrare in chiesa. Davanti ad essa erano state sistemate due colonne, sovrastate dalla figura della Religione recante lo stendardo con l’arme dei Cavalieri e ai piedi le spoglie nemiche, e da quella della Vittoria, anch’essa con spoglie nemiche ai piedi, mentre nelle mani teneva lo stendardo e una corona. Sui piedistalli delle colonne erano incatenate quattro figure di prigionieri. Sulla facciata della chiesa campeggiava il ritratto del granduca Cosimo III, eseguito da Pietro Dandini coadiuvato da doratori e tessitori.
L’interno della chiesa era stato dotato di un palco per i musici, di troni per il granduca e il priore Felice Marchetti, e di ‘gabinetti’ per ospitare gli invitati e la corte: tra questi, oltre alle autorità dell’Ordine, erano presenti l’arcivescovo di Pisa Francesco Pannocchieschi d’Elci, e il vicegerente della diocesi di Roma monsignor Giacomo De Angelis. La chiesa era parata con diverse serie di arazzi – delle Grottesche, di Sansone, della Creazione di Adamo –. Dal soffitto, invece, pendeva uno stendardo raffigurante il santo con un angelo e, ai piedi, la figura della Religione genuflessa. Sull’altare maggiore, progettato per l’occasione da Pier Francesco Silvani, campeggiavano le figure in gesso e legno realizzate da Giovan Battista Foggini, raffiguranti il Santo tra la Religione e la Fede, oggi conservate in un ambiente a destra del presbiterio.
L’evento fu senza precedenti. Diacinto Maria Marmi soggiornò a Pisa per 43 giorni e curò, coadiuvato da un vero e proprio team, ogni singolo aspetto, compresi i lunghi lavori di adeguamento del sito: dalla sistemazione degli interni della chiesa (comprensiva di dorature, spolverature, movimentazione dei materiali), a quella degli assi viari interessati dal passaggio del corteo. Furono effettuati lavori di miglioria sulle facciate e sui tetti degli edifici. Le strade vennero ricoperte di rena e la piazza ripulita e lastricata in alcuni punti con acciottolato.
Franco Paliaga sottolinea la particolarità della cerimonia, svoltasi da un luogo di pertinenza dell’Ordine a un altro – marcati rispettivamente dai ritratti di Cosimo I e Cosimo III –, che attraversava gli assi più importanti della città (Lungarni e Borgo) tramite un sistema di gallerie coperte.
Gli apparati effimeri concepiti da Marmi corrisposero tanto ad esigenze economiche quanto simboliche: molti arazzi provenivano dalla Guardaroba medicea; tende e altri tessuti da Santa Maria Novella e da numerose istituzioni fiorentine, pisane e livornesi; altri oggetti da prestiti privati. Il vasto repertorio sacro e profano suscitò meraviglia e ammirazione, puntando principalmente sull’aspetto decorativo, anche se alcuni arazzi palesavano ovviamente il nesso tra la dinastia medicea e l’Ordine, esaltando la necessità della lotta contro l’invasore in un momento storico particolare: l’avanzata turca alle porte di Vienna.
Durante il regime fascista Piazza dei Cavalieri ospitò la festa del grano: una delle manifestazioni di irreggimentazione delle masse connesse alla campagna voluta da Mussolini a partire dal 1925 per aumentare la produzione nazionale di cereali, nota come ‘Battaglia del grano’. Nell’area urbana venivano sottoposti a trebbiatura covoni di cereali con moderne macchine agricole, ad esaltazione del lavoro rurale e del progresso tecnologico.
Come tutti i regimi totalitari, il fascismo propugna una tenace politica di irreggimentazione delle masse. Essa viene perseguita (anche) attraverso una strabordante (e studiata) serie di momenti di aggregazione: adunate, ‘cerimonie patriottiche’, manifestazioni, discorsi, promossi dal regime nazionale o da una della miriade di associazioni in cui si organizzava la vita associata dell’epoca. All’interno di tale strategia (non priva di forme di coercizione) lo spazio pubblico e in particolare la piazza assume un’importanza particolare.
Assieme ad altri luoghi della città (Piazza dei Miracoli, in cui si svolse una celebre visita di Mussolini nel 1926 e Piazza Santa Caterina, che accolse la famiglia regnante nel 1925) Piazza dei Cavalieri rivestì un ruolo privilegiato. Tra le molteplici manifestazioni che qui ebbero luogo, tra le più peculiari vi è senz’altro quella legata alla promozione della nota ‘battaglia del grano’. Annunciata da Benito Mussolini in un comunicato dell’11 giugno 1925 e rilanciata nel 1935 per rispondere al nodo sanzionatorio promosso dalla comunità internazionale, la campagna si prefiggeva il compito di aumentare la produzione nazionale di cereali. Se da un lato tale obiettivo rispondeva a esigenze economiche (autosufficienza alimentare, equilibrio nella bilancia dei pagamenti, sostegno dei produttori italiani) e politiche (come riporta uno degli artefici della campagna, Francesco Todaro, al grano il regime fascista imputava nientemeno che «l’indipendenza nazionale in pace e la vittoria in guerra»), dall’altro rispondeva a profonde ragioni ideologiche. Sotto lo slogan «bisogna ruralizzare l’Italia», il regime infatti mescolava in modo contradditorio la propria componente tradizionalista e reazionaria (fondata sui miti del ritorno alla terra, della virilità e moralità della vita agreste, dello strapaese e dell’idillio bucolico) con quella modernista affascinata al contrario dallo scatto tecnologico e dalla civiltà industriale.
La ‘battaglia del grano’ allora si componeva di una molteplicità di manifestazioni e di incontri ramificati come sempre tra centro (Roma) e periferia. Nella capitale, nella sede del teatro Argentina, si svolgeva ad esempio (tra ottobre e dicembre) la proclamazione dei vincitori (i «veliti», secondo la definizione dello stesso Mussolini) del Concorso nazionale per la vittoria del grano, modificato dal luglio del 1934 in Concorso nazionale del grano e dell’azienda agraria, che premiava le aziende più produttive alla presenza dello stesso capo del governo, mentre nelle singole province si replicava la celebrazione su base locale. Pisa, ad esempio, nella terza edizione del premio (1927) ‘vantò’ un alto numero di menzioni. Il regime poi organizzava, sempre per tramite dei fasci locali, le cosiddette ‘cattedre agricole ambulanti’ (laboratori dimostrativi tesi a presentare ai coltivatori le più aggiornate tecniche produttive), ma anche convegni di divulgazione scientifica, mostre, proiezioni cinematografiche.
Come in altre città italiane anche a Pisa si celebrava, tra giugno e luglio (in coincidenza delle ultime fasi di raccolta), la festa del grano. Nella piazza venivano collocati dei covoni poi sottoposti a trebbiatura (procedura che consiste nella separazione della granella dalla paglia e dalla pula). Tale operazione veniva svolta da macchinari automatizzati, impiegati a scopo dimostrativo e pubblicitario. In una delle foto a corredo della scheda, in una piazza gremita di vessilli cittadini, si nota un modello della ditta S.A. Balduzzi e Rovida. In uno dei capolavori urbanistici del Manierismo italiano, al cospetto del fiore all’occhiello dell’accademia nazionale (la Scuola Normale), il fascismo coniugava una tradizione ancestrale (la festa del raccolto) all’innovazione tecnologica e alla promozione aziendale. Una delle tante forme in cui si esprimeva l’eclettismo, in molti casi scellerato, del regime al potere in Italia tra il 1922 e il 1943.
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