Ugolino della Gherardesca

Ugolino – Copertina – MET – Public Domain – inv. 67.250-2

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Ugolino della Gherardesca

[1210-1289]

Dietro l’episodio tragico che Dante Alighieri riporta (non senza filtri letterari) nel XXXIII dell’Inferno, si cela il nome di uno dei più influenti personaggi della storia pisana. Ugolino della Gherardesca, figlio del conte Guelfo, nasce a Pisa nei primi decenni del XIII secolo. Esponente di un’importante casata di tradizione ghibellina, fa la sua prima comparsa nei documenti nel 1252 in qualità di vicario di re Enzo: si tratta di un titolo simbolico (il sovrano era già nelle carceri bolognesi), che gli servì tuttavia per legittimare i propri possedimenti in Sardegna. Furono proprio le pretese sul regno di Cagliari la causa dei continui attriti con il governo pisano e delle oscillazioni che caratterizzarono la vita politica di Ugolino, di volta in volta vicino alla linea ghibellina del Comune, oppure guelfa dei Visconti.

L’ingresso nella grande storia si ha però nel 1284: la Repubblica pisana è angustiata dalle schermaglie con Genova per il dominio del Tirreno settentrionale (e in particolare della Corsica) e con Firenze per questioni commerciali. Il punto apicale di tale conflittualità si ebbe il 6 agosto di quell’anno: nella battaglia della Meloria la flotta pisana subì una terribile sconfitta ad opera delle forze genovesi. Ugolino, a capo di dodici galee, riuscì a rifugiarsi nel porto pisano, manovra che fece nascere sospetti di tradimento. Tuttavia, in una situazione di crisi, Pisa decise di ricorrere proprio alle sue doti di mediatore con le potenze vicine e tra le fazioni interne. La sua attività di governo è concordemente ritenuta dagli storici di grande moderazione: ridusse il rilievo della magistratura degli anziani e delle corporazioni, affiancò al potere il nipote Nino Visconti evitando di infierire sulle famiglie ghibelline; attraverso una serie di concessioni territoriali provò infine a pacificare i rapporti con Firenze e Lucca (con cui, come ricorda Giovanni Villani nella sua Cronaca, aveva stabilito relazioni politiche almeno dal 1275). Tuttavia, proprio la cessione di alcuni castelli provocò la reviviscenza delle accuse di tradimento e di intelligenza col nemico.

Se le Cronaca di Villani dipinge un Ugolino spietato traditore in grado per invidia di avvelenare persino il figlio della sorella (il conte Anselmo da Capraia) e di scacciare l’altro nipote (Nino di Gallura di Visconti) per ottenere un potere incontrastato sulla Repubblica, un lavoro più obiettivo sulle fonti delinea un’altra parabola. A seguito di uno scontro interno, una cordata di potere ghibellino capeggiata dall’arcivescovo di Pisa, Ruggieri degli Ubaldini, e da diverse potenti famiglie cittadine (tra le quali i Sismondi, i Gualandi e i Lanfranchi citati da Dante), attaccò la diarchia al potere, provocando dapprima la destituzione di Nino Visconti e colpendo successivamente lo stesso Ugolino. Secondo il vivido resoconto contenuto nei Fragmenta historiae Pisanae, questi, rientrato in città dal suo castello di Settimo «in dell’ora del vespro» del primo luglio 1288 tentò di sedare la rivolta promossa dell’arcivescovo Ruggieri, che in sua assenza si era installato nel Palazzo del Comune sito in Piazza Sant’Ambrogio (nell’area dell’attuale piazzetta Lischi). Dopo un’aspra contesa per le strade cittadine durata un’intera giornata, fu catturato e trattenuto, assieme alla sua famiglia, nel Palazzo del Capitano del Popolo su Piazza delle Sette Vie (la futura Piazza dei Cavalieri). Qui la permanenza forzata durò venti giorni, il tempo necessario per consentire agli operai incaricati dal Comune di trasformare l’antica Torre Gualandi (più tardi inglobata nell’odierno Palazzo dell’Orologio) in una prigione per lui, i suoi due figli Gaddo e Uguccione e i nipoti Anselmo e Nino. Se per Villani il loro destino di morte era segnato ab imis – riporta infatti un particolare che si ritrova solo nella sua Cronaca, e cioè che richiusa la porta, i carcerieri andarono poi a gettare la chiave in Arno –, per altri testimoni antichi la fine tragica di Ugolino e dei suoi familiari fu l’esito non preventivato di uno scontro politico che si protrasse a lungo: quando in città fece il suo ingresso il conte Guido da Montefeltro nel febbraio 1289, i prigionieri erano morti da pochi giorni.

Dalla lettera del testo dantesco non si evince con chiarezza la ragione della condanna di Ugolino: gli interpreti sono orientati a ritenere che il poeta (che probabilmente avrà udito la storia del conte quando era appena ventiquattrenne) non gradisse le sue ambiguità politiche nella gestione dei rapporti tra fazioni. Certo è che il suo racconto, sebbene fondato su particolari realistici, risente di un poderoso rivestimento poetico: dai filtri letterari (desunti in particolare da Stazio e da Virgilio), ai dettagli lacrimevoli e perfino orrorosi. Se ad esempio sembra oramai acclarato che tutti i prigionieri avessero ampiamente raggiunto l’età adulta tra il 1288 e il 1289 (non vi erano dunque bambini, come invece si evince da Inf. XXXIII, 28-75), il secolare dibattito sull’antropofagia di Ugolino prosegue. Se già in fase positivistica erano circolate ipotesi corroborate da dati scientifici (o pseudo tali) riguardo all’episodio di cannibalismo, è nel 2002 che si profila una svolta nelle ricerche con il presunto ritrovamento dei corpi dei Gherardesca, sui quali viene condotto un esame clinico accurato; tuttavia, gli esiti di tale scoperta sono stati profondamente messi in discussione da studi successivi.

La violenza scatenatasi contro la famiglia del conte è tutt’ora percepibile: il palazzo che i Gherardesca possedevano sull’attuale Lungarno Gambacorti venne smontato pezzo dopo pezzo e sul terreno fu sparso del sale. È a tutt’oggi, dopo più di settecento anni, l’unica area non edificata che corre nei pressi del fiume. Le spoglie del conte sono conservate in San Francesco.

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