Tecnica del graffito

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Tecnica del graffito

La tecnica del graffito – o «sgraffito» – si basa sull’utilizzo di un doppio strato di intonaco: sul primo, scuro e ancora umido, viene steso il secondo, di colore bianco e dello spessore di pochi millimetri. Sulla superficie chiara, ancora fresca, viene quindi riportato un disegno mediante la tecnica dello spolvero. Questa consiste nell’impiego di un cartone recante le figurazioni desiderate, a grandezza naturale e con i contorni forati, in modo che, passandovi sopra un sacchetto contente carboncino o grafite, ne rimanga traccia sullo strato superficiale di intonaco. Seguendo questi residui è possibile graffiare con strumenti di ferro acuminati lo strato superiore, facendo emergere la superficie ruvida e scura sottostante.

Utilizzato già in epoca medievale, il graffito divenne molto in voga dalla fine del Quattrocento – soprattutto a Roma e a Firenze –, con il diffondersi della decorazione a grottesche. È lo stesso Giorgio Vasari a far menzione di questa tecnica nella Vita di Andrea di Cosimo Feltrini (1477-1548), vero e proprio specialista nell’ambito, mentre nella seconda metà del Cinquecento uno dei principali interpreti fu Bernardino Barbatelli detto Bernardino ‘Poccetti’, ma anche ‘delle Grottesche’ e ‘delle Facciate’ (1548-1612), che la impiegò per esempio nel Palazzo di Bianca Cappello a Firenze.

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Bernardino Barbatelli, Decorazione graffita, 1579-1580. Firenze, Palazzo di Bianca Cappello

Prima di farne ampio uso nel Palazzo della Carovana (1564-1566) Vasari aveva già utilizzato il graffito nella decorazione esterna di Palazzo Vitelli alla Cannoniera, a Città di Castello, eseguita su suo progetto da Cristofano Gherardi nel 1534.

Si deve al maestro aretino la prima descrizione articolata di questa tecnica, contenuta nel capitolo XXVI dell’Introduzzione alle tre arti del disegno (nota anche come Teoriche) anteposta alle Vite, precisamente nella parte dedicata alla pittura.

Ripercorrendo il passo vasariano vengono subito chiarite la natura ibrida dell’operazione («disegno e pittura insieme») e la sua destinazione («non serve ad altro che per ornamenti di facciate di case e palazzi»), sottolineandone la velocità di esecuzione e la resistenza alle intemperie: essendo il disegno eseguito non «con carbone o con altra materia simile», bensì «con un ferro dalla mano del pittore». Vasari entra di seguito nel vivo del procedimento: l’intonaco scuro è ottenuto tramite un composto di calce e sabbia («rena»), a cui è aggiunta paglia bruciata (o, come scrive nella Vita di Feltrini, polvere di carbone di varia natura). In questo modo la miscela assume «un mez[z]o colore che trae in argentino e verso lo scuro un poco più che tinta di mezzo». Una volta stesa e lisciata, quindi «pulita [la facciata]», questa viene ricoperta «col bianco della calce di trevertino» e poi «ci spolverono su i cartoni overo disegnano quel che ci vogliono fare». Successivamente, «agravando col ferro», «dintornando e tratteggiando la calce» si ottiene un disegno, intorno al cui profilo vengono raschiati via interi campi di bianco, ottenendo di fatto figurazioni chiare su fondo scuro. Vasari fa poi riferimento a un processo di finitura: «una tinta d’acquerello scuretto molto acquidoso» usata tanto sull’intonaco scuro per dargli vigore, quanto su quello chiaro, specie su «grottesche e fogliami», per fare le ombreggiature e quindi dare rilievo.

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