Come molte altre componenti di Santo Stefano dei Cavalieri l’altare maggiore, che oggi si ammira nella versione progettata a inizio Settecento da Giovanni Battista Foggini su commissione di Cosimo III de’ Medici, fu oggetto di una lunga gestazione.
Il primo a mettervi mano fu l’onnipresente Giorgio Vasari, responsabile del rinnovo di Piazza dei Cavalieri in età cosimiana, che nel 1569 licenziò un iniziale disegno ideativo prevedendo, in linea con le nuove esigenze liturgiche post-tridentine, un ciborio posto in posizione dominante al di sopra della mensa, in luogo della consueta tavola dipinta (pala d’altare) che a detta degli intendenti dell’Ordine di Santo Stefano avrebbe occupato troppo spazio, sottratto luce e reso meno visibili le cerimonie nel coro (era stata in origine destinata a questo scopo la Natività di Bronzino, poi ricollocata su una delle pareti laterali).
L’invenzione vasariana è forse riconoscibile, almeno in traduzione (l’autografia del foglio è infatti discussa negli studi e respinta da Florian Härb nella monografia su Vasari disegnatore), in un disegno custodito all’interno del codice Ottoboniano Latino 3110 (n. 73) della Biblioteca Apostolica Vaticana, contenente una serie di studi di architettura risalenti a varie epoche e raccolti nel Settecento dal pittore Pier Leone Ghezzi. Il foglio presenta il rifinito progetto di una monumentale macchina d’altare (assai simile a quella ideata poco tempo prima dallo stesso Vasari per la chiesa di Santa Croce a Firenze) innalzata su un massiccio basamento e riecheggiante le forme di un arco trionfale all’antica, coronato però da una cupola e dominato nel centro da un sontuoso ciborio. Ai lati di quest’ultimo e nei margini superiori della struttura sono disposte alcune statue antropomorfe, mentre al centro del timpano triangolare si trovano due putti reggi stemma. Potrebbe dunque essere questo il «disegnio dello altare e ciborio del sagramento da farsi di marmo et di bronzo, ordinatomi da sua eccellenza illustrissima, qual’è ancora apresso di me», menzionato da Vasari in una celebre lettera inoltrata da Firenze, nel settembre 1569, al Consiglio dell’Ordine e contenente un riepilogo dettagliato di tutti i lavori eseguiti o in corso fino a quel momento nel Palazzo della Carovana e nella chiesa di Santo Stefano.
È stato anche proposto di identificare la prima idea dell’aretino in un secondo foglio, inserito nel medesimo codice vaticano (n. 60) e già ritenuto da Josephine von Henneberg connesso all’altare di Santa Croce: si tratta in effetti di un esemplare di netta impronta vasariana, ma salvo non volerlo immaginare antecedente al n. 73 – il cui assetto generale rispecchia meglio le descrizioni del progetto stefaniano desumibili dalle carte d’archivio – a parere della scrivente la ricostruzione di Von Henneberg rimane tuttora la più convincente. Da ulteriori attestazioni documentarie si apprende infatti che Cosimo I, pur apprezzando la qualità artistica dell’invenzione di Vasari, la giudicò troppo sontuosa, richiedendo probabilmente all’artista una revisione e accordandogli infine, nel dicembre successivo, la messa in opera del ciborio in bronzo, fiancheggiato – proprio come si vede nel primo dei due schizzi vaticani citati, ai lati del tabernacolo se non forse entro nicchie frontali – da due statue di marmo che «abbino a essere Santo Stefano p[apa] e m[artire] e l’altra San Cosimo».
Nonostante le premesse, i dispendiosi lavori per l’altare stefaniano furono presto accantonati e non se ne hanno notizie fino alla fine del 1570, quando vennero stimati i lavori eseguiti da Giovanni Fancelli detto Nanni di Stocco, uno dei più assidui collaboratori di Vasari nei cantieri pisani, comprendenti tra le altre cose «l’altare con esso li dua gradi di scalini e ’l suo pavimento e cinque colonne di mistio con esse le sue base e capitelli et fattura della tavola di mistio», mentre nel 1571 l’intagliatore Cosimo d’Arrigo fu pagato per la realizzazione di un ciborio ligneo. Si trattò tuttavia di una soluzione mai totalmente accettata dal Consiglio dell’Ordine, che in più occasioni tentò di aggiornare l’arredo d’altare con un ciborio in bronzo, senza però riuscire a centrare l’obiettivo.
Penna bruna e acquerello su carta bianca, 374 x 267 mm
Penna bruna e acquerello su carta bianca, 277 x 170 mm.
In basso al centro le scritte:
«Scala di braccia dieci» /
«Disegno dell’Altar Maggiore nella Chiesa Conventuale di S. Stefano P. M. in Pisa».
In basso a sinistra le scritte: «Fran.co Nave / 1675» / «Fran.co Nave».
Il tabernacolo cinquecentesco fu quindi demolito e sostituito solo nel 1682, quando le tanto agognate reliquie di santo Stefano, il cui approdo nella chiesa dei Cavalieri era già stato sollecitato invano ai tempi di Vasari, giunsero finalmente a Pisa. Se infatti nel corso del Seicento, a fronte dei complicati lavori di ampliamento dell’edificio chiesastico, vari artisti, tra cui Pietro da Cortona e Gian Lorenzo Bernini, erano stati coinvolti senza esito nella progettazione di un nuovo altare, la sopraggiunta necessità di ospitare all’interno di quest’ultimo le sacre spoglie del santo titolare, acquisite nel frattempo dal granduca e gran maestro Cosimo III de’ Medici, impose un cambio di rotta. Nessuna attestazione grafica rimane oggi del progetto berniniano, databile al 1671, mentre Berrettini, intorno al 1650, aveva sostanzialmente riadattato in chiave barocca il concetto vasariano di altare con ciborio centrale, come si trae da un prezioso disegno conservato a Berlino (Kunstbibliothek, inv. Hdz 231).
Sebbene non sia chiaro a partire da quale altezza cronologica l’arrivo delle reliquie stefaniane fosse previsto e dunque possibilmente considerato nei progetti, un disegno del 1675, oggi custodito agli Uffizi e rappresentante una struttura a edicola, con incrostature marmoree e alloggiamento per una pala d’altare centinata, già attribuito a Pier Francesco Silvani e poi all’architetto Francesco Nave (da cui risulta firmato), non sembra ancora includere spazi per il reliquiario.
Ripartendo dalle proposte di Cortona, nel 1682 l’allievo Ciro Ferri, coinvolto in vari progetti decorativi per gli arredi della chiesa, rimodulò l’assetto dell’altare, immaginandovi stavolta un sarcofago-reliquiario sormontato dalla statua del santo in posa benedicente, collocata sotto un baldacchino sorretto da due angeli in volo. In quello stesso anno però anche Pier Francesco Silvani e Giovanni Battista Foggini presentarono un modello congiunto per l’altare, che venne infine messo in opera per accogliere le reliquie del santo, arrivate con processione solenne nel 1683. Si trattava di una struttura in legno coronata da un gruppo scultoreo di grandi dimensioni (il cosiddetto ‘bozzettone’, ancora oggi conservato in un ambiente annesso alla chiesa), composto da santo Stefano papa in posa benedicente affiancato da putti e dalle personificazioni femminili di Fede e Religione. Una serie di disegni custoditi a Vienna documentano le varie fasi progettuali, che alla morte di Silvani, nel 1685, Foggini portò avanti da solo. Fu quindi sempre lui, dopo la traslazione a Pisa, nel 1700, della reliquia della cattedra stefaniana, donata all’Ordine da papa Innocenzo XII, a ripensare per un’ultima volta l’altare, modificando le statue e inglobando nella composizione sia i resti corporei del santo che il suo trono, recante sulla spalliera un altorilievo bronzeo dorato con la sua Decapitazione.
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