Del conte Ugolino di Pisa il dolore
Non potrebbe forse lingua, per pietà, raccontare.
Ma fuori Pisa c’è una torre
In cui lui fu imprigionato
E con lui i suoi tre bambini,
di cui il più grande non aveva cinque anni.
Ahimè, Fortuna, è stata grande crudeltà
Chiudere in tale gabbia simili uccelli!
Off the Erl Hugelyn of Pyze the langour
Ther may no tonge telle for pitee.
But litel out of Pize stant a tour,
In whiche tour in prisoun put was he,
And with hym been his litel children thre,
The eldeste scarsly fyf yeer was of age.
Allas, Fortune, it was greet crueltee
Swiche briddes for to putte in swiche a cage!
Monk’s Tale (ante 1400)
Geoffrey Chaucer (Londra? 1342/3-Londra 1400) è unanimemente considerato uno dei padri della letteratura di lingua inglese. È autore di testi fondamentali come The House of Fame (1380 ca.), Troilus and Criseude (composto negli anni ottanta del Trecento) e i più noti Canterbury Tales, opera matura (1387-1400), giuntaci incompleta. Molti aspetti della vita di Chaucer sono ignoti e diverse informazioni che riguardano la sua biografia del tutto congetturali. Incertezza sussiste sull’etimologia del nome, che deriverebbe per alcuni da chaussiere (scarpaio), per altri da chaucier (fabbricante di calzoni).
Nebulosa anche la ricostruzione dei suoi itinerari sul Continente. Se alcuni studiosi fanno risalire al 1368 un suo primo soggiorno in Italia (ricostruito per via puramente induttiva) per assistere al matrimonio del duca di Clarence con la figlia del duca di Milano, per altri è da spostarsi tra il dicembre 1372 e il maggio 1373, quando Chaucer, investito di importanti incarichi diplomatici, fece visita in veste ufficiale a Genova e a Firenze. Un secondo viaggio è datato tra il maggio e il settembre del 1378, quando lo scrittore è a Milano per esortare Bernabò Visconti e Giovanni Acuto a sostenere la guerra degli inglesi contro la Francia.
Tuttavia, come suggerisce David Wallace, l’influenza che la cultura e la letteratura italiana ebbero sulla sua parabola artistica precede la conoscenza diretta della Penisola tanto che «Chaucer may have heard something about Dante from those many Italian merchants who passed through London, or even from the French lyricists he had imitated and admired since his youth» (lo scrittore potrebbe aver sentito qualcosa su Dante dai molti mercanti italiani che passavano per Londra, oppure attraverso i lirici francesi che aveva imitato e ammirato sin dalla sua giovinezza). Si tratta di un’influenza, quella italiana, che muove anzitutto da ragioni di lingua e di stile. Ma vi erano anche ragioni formali più ampie, come ad esempio le scelte che ricadevano su precise soluzioni narrative: è nota la dipendenza della House of Fame dalla Commedia, come pure i Canterbury Tales dal Decameron. Ed è proprio in questi ultimi e precisamente nel Monk’s Tale [Racconto del monaco] che Chaucer inserisce la nota ricapitolazione delle vicende di Ugolino della Gherardesca iuxta Dante. In questa ampia descrizione lo scrittore inglese acclude un dettaglio assente nel XXXIII canto dell’Inferno, collocando la Torre della Fame nel contado pisano, e non, come sarebbe corretto, nel cuore della città, nella moderna Piazza dei Cavalieri.
Allo stato attuale della ricerca è impossibile affermare con sicurezza la presenza di Chaucer a Pisa nel 1373, sebbene sia possibile ipotizzare un suo transito per la città diretto verso Firenze. Le informazioni sulla topografia cittadina potrebbero essere dunque o frutto di fantasia, o di una testimonianza diretta, o ancora ricavate da fonti secondarie (scritte e orali). Per quanto riguarda la prima ipotesi, collocare un episodio tragico e cruento in un luogo isolato ha il potere di accrescerne il carico di inquietudine. Mario Curreli sostiene invece che Chaucer avrebbe scambiato la Torre di Ugolino con la Torre Guelfa della Cittadella, entrando in città dal Porto Pisano.
Infine vi è l’ipotesi più suggestiva, ma del tutto congetturale, di una fonte malevola. Come suggerisce Wallace, l’arrivo di Chaucer a Firenze nel 1373 coincise con i preparativi della lectura Dantis che Boccaccio avrebbe proferito davanti a Santo Stefano nell’ottobre di quell’anno. Non è dunque improbabile che Dante e la sua opera costituissero un argomento di profonda discussione all’interno del network di cui faceva parte anche lo scrittore inglese. La notizia erronea della collocazione della torre potrebbe dunque essergli stata riferita in quel circuito, magari da un personaggio locale (che non aveva letto la Nova cronaca di Villani). Dopo 85 anni dall’episodio che vi si consumò, il ricordo comincia a vacillare.
Oppure, per entrare però nel mondo della pura illazione giocosa, potremmo immaginare che il consulente di Chaucer fosse un cittadino pisano che scambia volontariamente, per pura burla linguistica ai danni di un visitatore straniero, la nota Torre della Fame nella piazza degli Anziani con una più rustica e modesta (ma assonante) Torre delle Fave, sita in «Cappella di S. Apollinare in Barbaricina», le cui prime attestazioni nei documenti del Comune di Pisa risalgono al 1343.
Al di là della ricostruzione filologica, tuttavia, permane la novità di un sito che per la prima volta si trasforma in un vero e proprio luogo di culto grazie alla letteratura europea, quando anche la memoria locale sembra venire meno.
Ci sono, oltre alle comodità del sito, che si trova tra Firenze e Livorno, altri tre motivi per cui questa città viene frequentata, altrimenti sarebbe del tutto desolata… Un altro [secondo] motivo, è che qui ha sede l'Ordine di Santo Stefano: i Cavalieri di quest'ordine hanno qui il loro palazzo, i funzionari e altre dipendenze… Non lontano da questo posto [Piazza dei Miracoli] sorge un'antica torre diruta, che chiamano Torre di fame, in ricordo della spietata crudeltà dell'arcivescovo Ruggiero, il quale, sospettandolo di tradimento, vi fece murare il conte Ugolino, un nobile pisano, e i suoi quattro figli, facendoli morire di fame, della qual cosa discorre molto elegantemente Dante nel suo 33° capitolo dell'Inferno, fingendo che lì, per il tormento dovuto a questo misfatto, il conte si accanisca sulla testa del vescovo con un’avidità insaziabile.
There are, besides the commodity of the seat, lying betweene Florence and Lyvorno, three other causes, that this cittie is frequented, otherwise it would be very desolate… Another is, for that it is the place where properly the order of S. Stephen is resident, where the Knights of this order have their Pallace, Officers, and other dependances. Not farre from this place is an old ruinous Tower, called by them Torre di fame in memory of the mercylesse crueltie of Ruggiero the Archbishop, who upon suspition of treason immured therein Conte Hugolino a noble Pisano, and his foure children, causing them to be starved: of whom Dante the poet in his 33 chapter dell’Inferno, very elegantly dischourseth, faining, that there for a torment due to such a fact, the Conte lireth upon the Bishopshead with a never satisfied greednesse.
A Survey of the Great Duke State of Tuscany (1596)
Robert Dallington (Geddington, 1561-Lonton, 1637) è uno scrittore inglese. Di umili origini, nasce a Geddington, nel Northamptonschire. Dal 1575 al 1580 è segnalato a Cambridge, come allievo del Benet College (attuale Corpus Christi). Rispettato consigliere dei principi reali Enrico e Carlo, è autore di una raccolta di elegie e di un Aphorismes Civill and Military (1613). La notorietà, tuttavia, giunse con i due volumi di viaggi pubblicati rispettivamente nel 1604 e nel 1605: The View of Fraunce e A Survey of Tuscany. La passione per l’Italia e la sua cultura attraversa l’intera carriera dello scrittore: il Survey è preceduto dalla traduzione parziale (da intendersi anche come propedeutica al viaggio) di una delle opere più suggestive del tardo Quattrocento: l’Hipnerotomachia Poliphyli (1° ed. or. 1499) di Francesco Colonna pubblicata, con le sole iniziali, nel 1592, mentre gli stessi Aphorismes sono un florilegio di brani tratti dalle opere di Francesco Guicciardini. Nella lettura di Karl Joseph Höltgen, Dallington rappresenta una delle figure che maggiormente contribuirono a introdurre un’immagine rinnovata della cultura italiana nell’Inghilterra elisabettiana, ampliandone così gli orizzonti estetici e riannodando le fila del rapporto con l’Europa.
Il volume sull’Italia, inizialmente circolante solo in forma manoscritta, restituisce il resoconto del viaggio che Dallington intraprese nel 1596, in qualità di segretario e tutore di Roger Manners, quinto conte di Rutland. Per quanto le relazioni tra Giacomo I e la corte dei Medici fossero molto buone (il sovrano inglese era intenzionato a dare in sposo suo figlio Henry alla figlia del granduca) e fosse del tutto positiva e soddisfacente l’esperienza di Dallington in Toscana, gli ambienti della cancelleria di Ferdinando I de’ Medici interpretarono il volume come un pamphlet antimediceo, tanto che Ottaviano Lotti, residente granducale a Londra, ne chiese il ritiro delle copie.
Nel 1596, quando Dallington intraprese il suo viaggio, l’Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano e il suo quartier generale posto nella Piazza rappresentavano ancora una novità assoluta all’interno della cornice urbana. Tuttavia, il punto di maggiore interesse della descrizione offerta dallo scrittore inglese risiede nella speciale menzione della «old ruinous Tower», la Torre della Fame, dove Ugolino e i suoi figli trovarono la morte.
In basso: «Piazza dei Cavalieri colla Torre del conte Ugolino»; in basso a destra: «Questo disegno fu fatto prima del 1596»
Poiché sulla facciata del Palazzo della Carovana non sono presenti i busti dei granduchi, il termine ante quem può essere spostato al 1590, anno in cui venne collocato il ritratto di Cosimo I.
Si tratta di uno dei primi accenni alla fortuna ‘turistica’ della torre fuori d’Italia e ricorda come nel 1596 essa non fosse ancora inglobata nel futuro Palazzo dell’Orologio: proprio durante la pubblicazione del Survey, infatti, inizieranno i lavori di ristrutturazione che dureranno dal 1605 al 1608. Il suo profilo in rovina (già Trifon Gabriele in un appunto vergato mezzo secolo prima ne segnalava il pessimo stato di conservazione) si trasforma così in un luogo di culto per i letterati europei che scoprono il genio di Dante. Infine, interessante notare l’associazione della struttura alla non vicinissima Piazza dei Miracoli piuttosto che alla moderna Piazza dei Cavalieri: si tratta di un collegamento incentivato forse anche dall’antico orientamento della torre, il cui ingresso stando a quanto suggeriscono i dati a disposizione, dava le spalle alla piazza, favorendone l’isolamento dal contesto vasariano.
Pisa fu già tanto facoltosa che contrastò con grosse armate, e co’ Venetiani, e co’ Genovesi… Rovinò per la strage, e rotta dell’armata loro in un fatto d’arme co’ Genovesi presso l’Isola del Giglio, perché ne restarono tanto debeli che non mai più poterono alzar il capo: anzi furono sforzati a piegar il collo sotto ’l giogo de’ Fiorentini, da quali ribellatisi nella venuta di Carlo VIII re di Francia, et di nuovo soggiogati in quindici anni si disertò la città quasi affatto. Perché i suoi cittadini, impatienti del dominio fiorentino, passarono in Sardegna, in Sicilia et in altri luoghi ad habitare. Così mancando et gli habitanti alla città, e i lavoratori al contado, il paese, che è di sito basso, resta soverchiato dall’humidità che rende l’aria pestilente. Il gran duca Cosmo procurò d’appopolarla co’l favorire lo studio et co’l fabricarvi un bel palazzo per la residenza dei Cavallieri di San Stefano, et co’l concedere diverse esenzioni a gli habitatori, che non vi hanno però fin hora potuto allignare.
Delle relationi universali (1597)
Giovanni Botero (Bene 1544-Torino 1617) è uno scrittore italiano. Entrato nella Compagnia di Gesù nel 1560 ne uscì nel 1580 al culmine di prolungati attriti con i superiori. Segretario di Carlo Borromeo, passò dunque al servizio di Carlo Emanuele I di Savoia prima di ricoprire la carica di tutore di Federico Borromeo, ruolo che mantenne fino al 1598. Ripreso il suo incarico presso la corte torinese come precettore dei figli del duca, vi svolse anche compiti di consigliere politico. Autore di numerose opere di filosofia morale, retorica, omiletica ed epistolografia, nonché di scritti appartenenti al genere della biografia politico-militare, Botero è universalmente noto per il suo trattato Della Ragion di Stato, uscito dai torchi veneziani di Giolito nel 1589. Tutta la produzione intellettuale di Botero è riconducibile a una lunga e articolata polemica (non priva di prestiti importanti) con Nicolò Machiavelli. Al centro della riflessione dello scrittore è la necessità di conciliare le procedure della conservazione e gestione degli stati con la considerazione morale (evangelica) e in particolare di porre tale unione sotto l’egida esclusiva della Chiesa cattolica. La sua opera avrà vasta eco europea, collocandosi tra il pensiero di Macchiavelli e Jean Bodin, dai quali tuttavia si distanzia per la centralità accordata nei suoi scritti a tematiche come l’economica e la demografia, eccentriche rispetto alla tradizionale primazìa giuridica (di cui non era peritus).
In quello che molti considerano il suo opus magnum, Delle relazioni universali, pubblicato in quattro parti dal 1591 al 1596 (una quinta vedrà la luce postuma solo nel 1895), Botero intendeva offrire un originale «repertorio organico di antropogeografia» allo scopo di rimarcare la centralità ecumenica del cattolicesimo romano. Diventerà ben presto, come ha scritto Luigi Firpo, «il vero e proprio manuale geopolitico di tutta la classe dirigente europea», cui arrisero numerose ristampe e traduzioni in latino, spagnolo, tedesco, inglese e polacco. Nella prima parte (1591), che comprende una compilazione delle caratteristiche geografiche e delle attività umane del mondo conosciuto, Botero presenta una descrizione della Toscana in cui ampio spazio è dedicato alla città di Pisa. In particolare, lo scrittore passa in rassegna le politiche che l’amministrazione granducale aveva promosso negli ultimi anni per risollevare le sorti di una città in cronico declino (datato, insolitamente, dalla battaglia dell’Isola del Giglio contro Genova del 1241). Accanto allo sviluppo del polo universitario e alla messa a punto di politiche fiscali ad hoc per il ripopolamento, Botero segnala l’istituzione dell’Ordine cavalleresco di Santo Stefano papa e martire e soprattutto la costruzione della sua prestigiosa sede («un bel palazzo per la residenza», l’attuale Palazzo della Carovana), rimarcando, con un accenno rapido ma non per questo meno incisivo, l’importanza di un progetto in cui riconfigurazione urbanistica e sfarzo estetico concorrevano al rilancio della città. La nascita (o rinascita) di Piazza dei Cavalieri diventa così una lezione di buon governo che, attraverso la fortuna delle Relazioni, tutte le amministrazioni europee avrebbero appreso.
Il palazzo e la chiesa di Santo Stefano (dove l’omonimo Ordine dei Cavalieri fu istituito) attrassero per primi la nostra curiosità. L’esterno di quest’ultima è interamente di marmo levigato; l’interno è pieno di quadri relativi a quest’Ordine, al di sopra dei quali sono appesi diverse bandiere e gagliardetti, con altri trofei sottratti da loro ai Turchi, contro cui sono particolarmente tenuti a combattere. Sebbene appartengano a un ordine religioso, hanno il permesso di sposarsi. Di fronte al palazzo sono poste una fontana e la statua del granduca Cosimo [de’ Medici].
The palace and church of St. Stephano (where the Order of knighthood called by that name was instituted) drew first our curiosity, the outside thereof being altogether of polish’d marble; within, it is full of tables relating to this Order; over which hang divers banners and pendents, with other trophies taken by them from the Turkes, against whom they are particularly oblig’d to fight; tho’ a religious order, they are permitted to marry. At the front of the palace stands a fountaine, and the statue of the great Duke Cosmo.
Diary (1818)
John Evelyn (Wotton 1620-1706) è stato uno scrittore inglese. Discendente di una facoltosa famiglia di proprietari terrieri, studiò al Middle Temple di Londra e poi a Oxford (Balliol College). Durante la guerra civile parteggiò per la causa realista, tuttavia senza esporsi personalmente. Tra il 1643 e il 1647 compì un viaggio in Italia e in Francia. A Parigi (dove risiedeva la corte inglese in esilio) sposò la figlia di Richard Browne, rappresentate di Carlo I presso il sovrano francese. Nel 1659, un anno prima della conclusione dei tumulti, compose due pamphlet politici che gli valsero la stima di Carlo II: alla restaurazione della monarchia assunse diversi incarichi di prestigio presso l’amministrazione come membro di numerose commissioni (dal Sigillo privato a quella istituita per la ricostruzione della cattedrale di San Paolo nel 1666, a quella dedicata alla cura dei malati e dei feriti). Autore prolifico e poliedrico, compose opere di botanica e silvicoltura (Sylva, 1664), trattati sull’incisione (Sculptura, 1662) e sulle medaglie (Numismata, 1697), nonché un peculiare Fumifugium (1661) sul fumo e sulla nebbia di Londra. Il suo Diary, opera privata pubblicata postuma per la prima volta nel 1818, costituisce un documento eccezionale per estensione e profondità, che descrive minutamente, grazie all’annotazione puntuale di eventi, luoghi e persone, oltre settant’anni di storia europea.
Durante il suo viaggio in Italia, lo scrittore inglese raggiunse Pisa il 20 ottobre 1644, dopo aver compiuto un itinerario poco comune che lo vide mancare in barca la tappa abituale di Livorno per il maltempo e ripiegare su un approdo di fortuna a Portovenere, per poi da lì muoversi via terra attraverso la Lunigiana. Insolita è del pari l’affermazione sul primo sito incontrato in città: Piazza dei Cavalieri e non, come sarebbe più logico per un viaggiatore che scende da Viareggio, Piazza dei Miracoli. Se tale primato implicasse anche una preferenza estetica accordata alla Piazza non è dato sapere: certa è invece l’attenzione che Evelyn pone nella descrizione degli interni della chiesa di Santo Stefano. Il viaggiatore ne enfatizza la facciata marmorea, che venne completata solo nel 1596 su progetto di Don Giovanni de’ Medici, e le tele monocrome parietali con la Vita di santo Stefano, ideate da Ridolfo Sirigatti e composte attorno al 1588. Il soffitto ligneo e il ciclo pittorico ivi incassato risalgono ai primi decenni del Seicento. Vi è per altro un’incertezza nelle note di diario: l’espressione «tables relating to this Order» sembra riferirsi appunto alle tavole a soffitto, tematicamente incentrate sulla Storia dei Cavalieri, sebbene con l’espressione «over which hang divers banners and pentants» è più plausibile congetturare un richiamo alle tele a parete. È certo, tuttavia, che Evelyn vedesse una chiesa in parte differente da quella odierna: all’esterno si segnala infatti l’aggiunta delle due ali laterali solo tra gli anni ottanta e novanta del Seicento, mentre all’interno venne collocato nel 1709 l’altare maggiore, su disegno e realizzazione di Giovanni Battista Foggini. La stessa Piazza dei Cavalieri, proprio a seguito dell’aggiunta delle due ali, aveva poi una conformazione affatto differente da quella attuale, in quanto furono abbattute diverse strutture private sul lato sud per lasciare posto agli ampliamenti della chiesa. La primazia accordata da Evelyn a Piazza dei Cavalieri costituisce un vero e proprio unicum tra i visitatori stranieri. La magnificenza del potere mediceo poteva aver attirato i favori del viaggiatore anglicano per la declinazione meno appariscente e più sfumata delle implicazioni cattoliche del sito rispetto a Piazza dei Miracoli: un dato corroborato anche dalla notazione fulminea quanto in grado di tradire un misto di curiosità e simpatia relativa al permesso concesso ai Cavalieri dell’Ordine di prendere moglie.
Lasciando l’area [Piazza dei Miracoli] dove si trovano tutte queste cose, un po’ più all’interno della città vi è la chiesa e il palazzo dei Cavalieri dell’Ordine di Santo Stefano. La facciata della chiesa è in marmo levigato. L’interno è adornato dalle più vere insegne del valore: i trofei strappati ai comuni nemici della Cristianità, i turchi. Davanti al palazzo si trova la statua del granduca Cosimo con una fontana. La dignità dei Cavalieri è molto simile a quella dei Cavalieri di Malta, entrambi sostengono la causa di Cristo contro i seguaci di Maometto, sebbene i primi possono sposarsi, mentre questi ultimi credo di no; indossano una croce rossa come loro simbolo.
Leaving the area where these things stand together, a little more into the towne is the chappell and Palace, of the Knights of the Or∣der of St. Stephen, the frontespiece of the chappell is of marble neatly pollish’t. The inside is adorn’d with the truest ensignes of valour; I meane trophees taken from the common enemies of christianity, the Turkes. Before their Palace is the statue of the great duke Cosmus, with a fountain. This dignity of knighthood is much like to that of Malta, both to maintain Christs cause against the mahometans, yet these may marrie, the others I conceive may not: These weare a red crosse for their badge in this fashion.
An Itinerary (1648)
John Raymond è uno scrittore inglese. La sua vita e la sua opera sono avvolte nell’ombra: non si conoscono data e luogo di nascita e morte; mentre la relazione del viaggio compiuto tra il 1646 e il 1647 in Francia e in Italia pubblicata nel 1648 con il titolo di An itinerary (e titolo alternativo sull’antiporta di Il Mercurio italico) resta l’unica testimonianza a stampa nota: si tratta di una guida per gentlemen inglesi in procinto di intraprendere un viaggio in Europa. Come si evince facilmente dalle date, il tour intrapreso con lo zio (esule realista) coincide con l’allontanamento da un paese, l’Inghilterra, in profonda guerra civile. Se non fosse per un itinerario differente e una diversa cronologia, si potrebbe sospettare che Raymond avesse compiuto il suo viaggio anche in compagnia di John Evelyn, con il quale condivide diversi giudizi sui luoghi visitati. In particolare, ripresi in An itinerary sono i classici «motivi della contrapposizione tra l’Italia antica e l’Italia moderna, i giudizi sugli italiani» nonché «l’ammirazione per l’ordinamento politico di Venezia», come ricorda Daniela Giosuè.
Raymond entra in Piazza dei Cavalieri lasciandosi alle spalle Piazza dei Miracoli. Il suo giudizio, come quello di John Evelyn, trascura la decorazione del Palazzo della Carovana per dedicare invece spazio alla chiesa di Santo Stefano: dalla sua facciata in marmo e soprattutto dai trofei strappati ai turchi e conservati all’interno, Raymond procede a considerazioni più di natura morale che di ordine estetico. L’Ordine di Santo Stefano, in particolare, accostato nei suoi rituali e nelle sue istituzioni a quello più antico e più noto dei Cavalieri di Malta, agli occhi di un visitatore protestante del diciassettesimo secolo si tramuta in una curiosità etnografica e al contempo in uno stimolo all’unità della comunità cristiana in un momento in cui in Inghilterra infuriava (anche) una profonda conflittualità tra varie le correnti cattoliche, anglicane e presbiteriane.
I Cavalieri di Santo Stefano hanno la loro residenza a Pisa. Voi sapete che è l'ordine del granduca, e che Cosimo I lo istituì nell'anno 1561. La statua di questo principe è nella piazza, davanti alla chiesa dei Cavalieri, e questa chiesa è tutta piena di bandiere, di fanali e altre spoglie dei Turchi.
Les Chevaliers de S. Estienne ont leur résidence à Pise. Vous sçavez que c’est l’ordre du Grand Duc, et que Cosme premier l’institüa l’an 1561. La statüe de ce Prince est dans la Place, vis-à-vis de l’Eglise des Chevaliers ; et cette Eglise est fort remplie de drapeaux, de fanaux, et d’autres dépoüilles de Turcs.
Nouveau voyage d’Italie (1691)
Quando Luigi XIV promulga l’Editto di Fontainbleu (1685) che revoca le libertà concesse agli ugonotti dall’Editto di Nantes (1598), François Maximilien Misson, protestante e consigliere della Camera al Parlamento di Parigi, è costretto all’esilio. Trova impiego in Inghilterra come precettore del Conte d’Arran, Charles Hamilton, al cui seguito compirà tra il 1687 e il 1688 un lungo viaggio per l’Europa continentale. Si tratta di una moda oramai consolidata: già dai primi decenni del Seicento i rampolli delle dinastie britanniche sono invitati a intraprendere un viaggio di formazione presso le società europee più progredite. L’itinerario di Misson si snoderà tra Olanda, Germania e Italia, ma sono le notazioni dedicate a quest’ultima che andranno a comporre uno dei volumi di viaggio più diffusi del diciottesimo secolo: il Nouveau voyage d’Italie (La Haye, 1691). Scritto in stile epistolare, con una prosa chiara e raffinata, il testo si impone come un nuovo modello per la guidistica europea del Settecento.
Misson giunge a Pisa nel maggio 1688, dopo aver visitato Roma e Siena. L’impressione che ne deriva è di una città spettrale, tanto vasta quanto disabitata: «c’est grand dommage qu’un si beau lieu soit si pauvre et si dépeuplé» («è un gran peccato che un posto così bello sia tanto povero e spopolato»). Si tratta di un topos segnalato da diversi viaggiatori, e che qui trova il suo archetipo. La crudezza dell’appunto è confermata dai rilievi urbanistici e dai documenti storici. Se la cinta muraria eretta attorno al 1154 si imponeva per una vastità giustificata meno da considerazioni demografiche e territoriali che da una pura ansia di espansione (la Repubblica di Pisa era allora agli inizi di un periodo d’oro che sarebbe durato almeno fino alla metà del Trecento), la prima (1406) e soprattutto la seconda dominazione fiorentina (1509) provocherà un’imponente diaspora delle famiglie della nobiltà locale che sceglieranno l’esilio volontario. Da qui la città conoscerà un drammatico declino. Misson ne individua le cause nell’ultima guerra contro gli eserciti di Firenze del 1509, «car ils la saccagerent, & la ruïnerent presque entierement» («che la saccheggiarono e la rovinarono quasi del tutto») e nell’edificazione della città di Livorno.
È all’interno di questa cornice che si inserisce l’accenno del viaggiatore a Piazza dei Cavalieri. Nel 1688 il francese ha di fronte a sé uno spazio urbano che diverge solo per qualche dettaglio da quello attuale: a titolo esemplificativo, la torretta campanaria del Palazzo del Buonomo (oggi dell’Orologio) sarebbe stata installata più tardi, nel 1696, mentre l’orologio adornava ancora la chiesa di Santo Stefano, che nel 1688 vedeva quasi completare l’ampliamento delle due ali laterali (terminato nel 1691). Al di là del complesso di Piazza dei Miracoli, quello a Piazza dei Cavalieri è l’unico accenno alla città di Pisa nel Nouveau voyage: è la certificazione del successo dell’operazione simbolica dei Medici nel riplasmare (e in parte risarcire), sotto l’ombra dello scudo a sei bisanti, la vecchia eredità municipale.
Fu lo stesso principe [Cosimo I de’ Medici] a istituirvi [a Pisa] un Ordine cavalleresco, che chiamò di San Stefano, il cui capitolo si tiene a Pisa. Questi Cavalieri devono provenire tutti da famiglie illustri e il loro compito è quello di combattere contro gli infedeli; si dice anche che siano pochi quelli che fanno più danni di loro ai Turchi. Portano una croce rossa, non sono ecclesiastici come quelli di Malta e possono sposarsi, anche se la maggior parte si astiene dal farlo per poter svolgere più liberamente il proprio dovere. I duchi di Firenze fecero costruire a Pisa un magnifico palazzo per questi Cavalieri, con una bella chiesa dedicata a Santo Stefano, dove si riuniscono. Il suo portale è interamente intarsiato di marmo e la volta è dorata; l’interno è decorato con le armi dei Cavalieri e i trofei conquistati ai Turchi.
C’est ce même Prince qui y a institué un Ordre de Chevalerie, qu’il a nommé de S. Etienne, dont le Chapitre se tient à Pise. Ces Chevaliers doivent tous être de famille illustre, & leur emploi est de combattre contre les Infidèles ; aussi diton, qu’il n’y en a guéres qui fassent plus de mal aux Turcs, qu’eux. Ils portent une Croix rouge; ils ne sont point Ecclesiastiques comme ceux de Malthe, & ils peuvent se marier, quoique la plupart d’eux s’en abstiennent, pour vaquer avec plus de liberté à leur emploi. Les Ducs de Florence ont fait bâtir à Pise un magnifique Palais pour ces Chevaliers, avec une belle Eglise dédiée à S. Etienne, où ils s’assemblent. Le portail de cette Eglise est tout incrusté de marbre, & la voûte en est toute dorée; l’Eglise est toute ornée en dedans des Armes des Chevaliers, & des trophées qu’ils ont remportés sur les Turcs.
Les délices de l'Italie (1706)
Dello scrittore De Rogissart, autore delle fortunate Délices de l’Italie, conosciamo pochissimi dettagli biografici. Francofono, spesso gli è attribuito negli studi il nome di Henry o quello di François; talvolta è associato ad Alexandre de Rogissart, l’omonimo editore di La Haye. Difficile dissipare l’incertezza: nella sua unica opera nota (edita per la prima volta nel 1706), il suo nome non è mai riportato per esteso. Secondo Marina Bailo venne accompagnato nel viaggio italiano da un certo ‘Mr. H.’, sigla dietro la quale è usualmente individuato l’Abbé Havard, che però, a quanto si evince da un passo dall’Avertissement nell’edizione ampliata del 1709, è intervenuto solo a integrare o emendare diversi luoghi dell’opera.
Nella sua Préface De Rogissart si rivolge a tre tipologie di pubblico: anzitutto a coloro che intendono intraprendere un viaggio nella Penisola per fornire loro una guida affidabile dei luoghi da visitare; a coloro che vi sono già stati al fine di farne rivivere l’esperienza grazie alla freschezza delle descrizioni; infine, a coloro che, per le più diverse ragioni, non potranno mai recarvisi. Queste considerazioni spingono l’autore a confezionare una relazione che non è solo il referto della sua personale esperienza di viaggio, quanto piuttosto il prodotto di un ampio lavoro di collazione di fonti cinque e seicentesche, alcune delle quali esplicitamente menzionate: Andrea Scoto, di cui aveva letto con ogni probabilità l’Itinerarium Italiae; Scipione Mazzella, di cui compulsò certamente la Descritione del Regno di Napoli; Giulio Cesare Capaccio e molti altri. Proprio la sua natura ibrida rese l’opera un best-seller europeo: lo stesso Montesquieu la impiegò durante il suo viaggio in Italia.
Descrizioni più affidate ai documenti e meno a valutazioni autoptiche si riscontrano soprattutto nel testo del 1709, dove, assecondando un luogo oramai comune, l’autore insiste su quanto sia spettrale Pisa («l’erba cresce nelle strade», «l’herbe y croit dans les rues»), decaduta dopo l’apogeo medievale, sebbene ora fatta rinascere dai Medici; è in debito con le Vite di Vasari per un rimando a Nicola Pisano quale architetto del palazzo medievale trasformato nel Palazzo della Carovana durante il Cinquecento («il palazzo dei Cavalieri di Santo Stefano è stato inizialmente costruito da Nicola Pisano, ma è stato rifatto successivamente da Giorgio Vasari»; «[le palais] des Chevaliers de Saint Etienne a été bâti d’abord par Nicolas Pisan; mais il a été rebâti depuis par Géorge Vasari»); e sbaglia la collocazione della statua di Cosimo I de’ Medici che, forse per colpa dell’imprecisa piantina della città edita nella prima edizione, indica come vis-a-vis alla Chiesa dei Cavalieri e non al loro palazzo. Merita però attenzione il raro accenno speso nel 1709 al Palazzo dei Dodici, sede all’epoca del Tribunale dell’Ordine, che aveva giurisdizione anche sui delitti commessi nella piazza: «il Palazzo di Giustizia, dove si riunisce la rota» («le Palais de la Justice, où s’assemble la Rotte»).
Sembrano invece coincidere con uno sguardo dal vero ancora ben impresso nella memoria dello scrittore alcune osservazioni presenti solo nel 1706 e poi cassate o rielaborate nel 1709, come l’apprezzamento vivo per il palazzo dell’Ordine («un magnifique Palais»); il ricordo del portale della chiesa «tout incrusté de marbre»; l’accenno alle «armes des Chevaliers» all’interno di Santo Stefano, e non solo ai trofei da loro vinti ai Turchi. Anche in questa edizione, del resto, non mancano le inesattezze, come l’elogio della presunta «volta… tutta dorata», nella chiesa dei Cavalieri, in realtà decorata con un soffitto ligneo in parte istoriato. Difficile è d’altra parte trarre conclusioni senza sapere quando ebbe luogo il viaggio in Italia descritto nel libro: se a ridosso della pubblicazione, sarebbe avvenuto mentre era in corso di preparazione l’altare maggiore, ai cui lavori furono costretti a partecipare anche prigionieri di fede musulmana: una notizia che trova un parziale riscontro indiretto nel testo, dove si accenna all’elevato numero di schiavi presenti in città, «alcuni dei quali sono impiegati per segare il legno, altri per intagliare o lucidare il marmo» («aussi est ce la ville… où il y le plus d’Esclaves, dont les uns sont occupés à scier le bois, les autres à tailler, ou à polir le marbre»).
I cavalieri di Santo Stefano devono obbedienza e servizio militare contro gli infedeli al gran maestro, che non è altri che lo stesso granduca di Firenze. Non godono di una commenda finché non hanno completato le loro carovane [servizio marittimo]… Nelle occasioni ufficiali portano sul petto una croce ottagonale di satin cremisi bordata d’oro, ma al di fuori delle cerimonie e quando comunque sono in pubblico indossano una croce di raso bianco sul mantello…
Nella loro chiesa sono appese centinaia di bandiere e altri simboli di vittoria sottratti agli infedeli. Il suo altare principale è fatto di bellissimo porfido e si dice che sia costato ottantamila scudi. Sopra di esso si trova una statua di Santo Stefano papa in marmo bianco. La piazza antistante la chiesa è composta di belle case e ospita anche il palazzo dell’Ordine, dove sono posizionati i ritratti in marmo bianco dei granduchi. Davanti è collocata la statua in marmo bianco di «Cosmi Magni», eretta in suo onore dall’Ordine nel 1596 «Ferdinando Duce & Ordinis Magistro III. feliciter dominante», come recita l’iscrizione.
[Die Ritter St. Stephani] schweren dem Großmeister, welches kein anderer als der Großherzog von Florenz selbst ist, Gehorsam und Kriegesdienste gegen die Ungläubigen. Sie gelangen auch nicht eher zum Genusse einer Commanderie, bis sie ihre Karavanen vollendet… Wenn sie im Staat sind, tragen sie ein mit Golde bordirtes achteckiges Kreuz von Cramoisi Satin auf der Brust, ausser den Ceremonien aber, und wenn sie sonst ausgehen, siehet man ein Kreuz von weissem Atlas auf dem Mantel…
In ihrer Kirche hängen viele hundert Fahnen und andere den Ungläubigen abgenommene Sieges-Zeichen. Das Hauptaltar dieser Kirche ist von schönem Porphyr, und soll achtzig tausend Scudi gekostet haben. Ueber demselben ist S. Stephanus Papa in weissem Marmor zu sehen. Der Platz vor der Kirche ist mit schönen Häusern bebauet, und auch der Pallast des Ordens darauf befindlich, um welchen oben herum die Brust-Bilder der Großherzoge aus weissem Marmor stehen. Vor demselben ist die Statua Cosmi Magni aus weissem Marmor in Augen schein zu nehmen, die ihm zu Ehren im Jahre 1596 von dem Orden aufgerichtet worden, Ferdinando Duce & Ordinis Magistro III. feliciter dominante, wie die Inscription meldet.
Neüeste Reise (1740)
John George Keyssler (Thurnau 1689-Gut Stintenburg 1743) è stato uno scrittore e antiquario tedesco. Secondo quanto riportato nella nota biografica apposta alla seconda edizione delle sue Reisen, all’Università di Halle Keyssler accompagnò lo studio del diritto a quello del latino, del greco e dell’ebraico. Dal 1713 iniziò la sua attività di precettore: prima per i conti di Giech-Buchau, al seguito dei quali ebbe modo di visitare l’Olanda, la Germania e la Francia, e successivamente (1716) per il nipote e i figli del barone di Bernstorff, primo ministro di sua maestà britannica. Nel 1718 è in Inghilterra, dove divenne membro della Royal Society grazie ai suoi lavori sulle antichità celtiche e anglosassoni (in particolare per il saggio Exercitatio de dea Nehalennia numine veterum Walachrorum). Al seguito dei suoi pupilli, Keyssler compì tra il 1729 e il 1731 un lungo tour europeo in cui toccò diversi paesi: Germania, Svizzera, Italia, Austria, Ungheria, Boemia, Francia, Inghilterra e infine Olanda. Rimase quindi al servizio della famiglia del barone, dove poté lavorare alla stesura delle sue Neueste Reisen. L’opera, pubblicata in due tomi tra il 1740 e il 1741 (il primo contiene il resoconto pisano), ebbe notevole eco; fu ristampata postuma (1751) e rapidamente tradotta in inglese (1756-1757) ed ebbe ampia fortuna europea: si ha contezza di una copia posseduta da Leopold Mozart, padre del celebre compositore, da lui compulsata in preparazione del suo viaggio italiano.
Keyssler giunge a Pisa nel gennaio del 1730. Come per la maggior parte dei visitatori del Settecento prerivoluzionario, l’Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano e la relativa sede rappresentano una delle massime attrazioni pisane; al contrario, si eclissa il mito di Dante, anche a causa del preponderante gusto barocco. La puntuale e ampia descrizione di Keyssler si sofferma, affascinata, sugli aspetti più quotidiani della vita dei cavalieri, descrivendone costumi e cerimonie: dal testo si evince persino che avesse contezza della magnificenza del loro vitto e chiama le loro esercitazioni marittime ‘Carovane’, dalle quali prende ancora oggi il nome il Palazzo della Carovana. Spiega inoltre che la dedicazione dell’Ordine a Santo Stefano papa era stata decisa dal suo fondatore Cosimo I de’ Medici, perché aveva riportato «la straordinaria vittoria di Marciano, che di fatto stabilì il potere e il governo mediceo» [«den merkwürdigen Sieg bey Marciano, der eigentlich die Mediceische Macht und Regierung vestgestellet hat»] nel giorno della festa del santo, il 2 agosto, ancora celebrato dei Cavalieri.
Tra le notizie di rilievo storico-artistico vi è senz’altro quella relativa al costo dell’altare maggiore, introdotto nella chiesa dei Cavalieri solo pochi anni prima (1709) e che lo scrittore fissa alla cifra (piuttosto bassa rispetto ai costi reali) di 8000 scudi. Durante il soggiorno dello scrittore, infine, alloggiava nel Palazzo della Carovana un numero piuttosto limitato di cavalieri (dai dieci ai quindici): ciò a seguito della riforma del 1719, che consentiva loro di trovare una sistemazione anche fuori dalla sede dell’Ordine.
La chiesa dei Cavalieri di Santo Stefano, ordine del granduca, è tutta tappezzata di stendardi sottratti ai turchi. È un bel trofeo, ma mi chiedo se non ve ne sia qualcuno dei loro nelle moschee. Il soffitto è tutto dorato e dipinto dal Bronzino. Vi è rappresentata la vita di Ferdinando de' Medici. L'altare maggiore, sul piano architettonico, tutto fatto di porfido incrostato di calcedonio, è un pezzo davvero rimarchevole. Al centro della piazza, davanti alla chiesa, c'è la statua del grande Cosimo, fondatore dell’Ordine, e tutto intorno le case dei Cavalieri.
L’église des Chevaliers de Saint-Etienne, ordre du Grand-Duc, est toute tapissée d’étendards pris sur les Turcs. C’est un beau trophée, mais je voudrois bien savoir s’il n’y en a pas aussi quelques-uns des leurs dans les mosquées. Le plafond est fort doré et peint par le Bronzino. Il y a représenté la vie de Ferdinand de Médicis. Le maître-autel on architecture, tout de porphyre incrusté de Calcédoine, est une pièce fort remarquable. Au milieu de la place qui est au-devant de l’église, est la statue du grand Côme, fondateur de l’ordre, et tout autour les maisons des chevaliers.
Lettres familières écrites d'Italie (1739)
Charles de Brosses (Digione 1709-Parigi 1777) è stato uno scrittore e politico francese. Dopo gli studi presso i Gesuiti fu nominato consigliere del parlamento di Borgogna nel 1730, divenendone poi presidente. Autore di formazione giuridica, anche grazie alla sua prossimità ai circuiti illuministici parigini sviluppò notevoli attitudini di ricerca in campi di studio disparati: dall’antropologia (Du culte des dieux fétisches, stampato nel 1760, introduce il concetto di ‘feticcio’), all’archeologia, alla storiografia, alla linguistica (il Traité de la formation méchanique des langues del 1765 costituisce a tutt’oggi un lavoro pionieristico), alla geografia (Histoire des navigations aux terres australes, 1756).
Delle epistole raccolte in tre volumi pubblicati postumi per la prima volta nel 1798-1799 con il titolo Lettres historiques et critiques sur l’Italie, poche sono state effettivamente composte in Italia: molte di esse sono state prodotte, anni dopo, dopo il suo rientro in Francia. Il viaggio di De Brosses nella Penisola è in effetti motivato più da scopi di documentazione che dallo spirito del Grand Tour. In particolare, lo scrittore era alla ricerca di materiale utile alla compilazione del suo opus magnum: l’Histoire de la République romaine dans le cours du VIIe siècle stampato nel 1777, ricostruzione delle Historiae di Sallustio. Sebbene non manchi brio nella scrittura e il testo abbondi di acute osservazioni sui costumi locali, le Lettres sono spesso viziate da imprecisioni e lacune, probabilmente dovute proprio alla compilazione di molto successiva alla visita.
De Brosses descrive il suo arrivo a Pisa in una lettera a Bernard de Blancey, datata 14 ottobre 1739 e intitolata Route de Florence à Livourne, che colloca la sua sosta in città nel tratto che dal capoluogo toscano lo conduce all’importante porto tirrenico. Se la posizione della statua di Cosimo I di fronte alla chiesa può essere il frutto di una contaminazione con il testo di De Rogissart, l’attribuzione del soffitto (più propriamente delle sei tavole ivi collocate) al Bronzino rappresenta un unicum. Nella chiesa (e non nel soffitto) è effettivamente collocata un’opera dell’artista fiorentino, ma si tratta della sola Natività di Cristo. Del pari erronea è poi l’indicazione del tema: il progetto iconografico del ciclo fu solo ispirato da Ferdinando I de’ Medici, ma i soggetti non riguardano la sua vita. Unica è anche la ricca descrizione dell’altare, il cui progetto e la cui esecuzione (terminata nel 1709) si devono a Giovan Battista Foggini. A restituire il guizzo geniale dell’illuminista abituato allo sguardo comparativo e prospettico, interviene infine l’ironia dissacrante di De Brosses, che nell’osservare i trofei di guerra sulle pareti interne della struttura ne immagina, per converso, cimeli strappati ai Cavalieri dell’Ordine di Santo Stefano fare mostra di sé in qualche moschea ottomana.
In Santo Stefano ci sono due quadri che parrebbero del Bronzino o di scuola fiorentina: ci sono alcune cose ben disegnate. Si può osservare un altare di porfido, la cui architettura è buona e di gusto virile. Le figure scolpite sono cattive. [...] Ci sono ancora in questa città delle facciate di case decorate con buon gusto.
A S. Stephano, il y a deux tableaux qui paroissent de Bronzino ou de l’école Florentine : il y a des choses bien dessinées. On y voit un autel de porphyre, dont l’architecture est bonne & d’un goûte mâle. Les figures de sculpture sont mauvaises. […] Il y a encore dans cette ville quelques façades de maisons décorées d’un goût assez mâle.
Voyage d’Italie (1758)
Charles-Nicolas Cochin (Parigi 1715-Parigi 1790) è stato un incisore francese figlio d’arte, che esordiva nel 1731, a soli sedici anni, con il suo primo volume di stampe e nel 1739 veniva già nominato disegnatore dei Menus-Plaisirs du Roi (l’‘ente’ che curava l’organizzazione delle cerimonie reali). Entrato nell’entourage di Jeanne-Antoinette Poisson (meglio nota con il nome di Madame de Pompadour), accompagnò il fratello di lei (il Marchese di Marigny) in un viaggio in Italia in preparazione al nuovo incarico che quest’ultimo avrebbe assunto al suo ritorno come direttore dei Bâtiments du roi (amministrazione che sovrintendeva ai lavori nelle residenze dei reali di Francia).
Il soggiorno, durato due anni dal 1749 al 1751 e compiuto in compagnia di Jean-Bernard, abate Le Blanc (letterato e storiografo dei Bâtiments du roi) e dell’architetto Jacques-Germain Soufflot, fu gravido di conseguenze: a partire dai recenti scavi di Ercolano, di cui l’incisore riuscì a cogliere l’importanza, Cochin elaborò una serie di proposte critiche per un gusto estetico che superava la coeva moda rococò. La narrazione del viaggio confluì in un’opera in tre volumi pubblicata nel 1758: il Voyage d’Italie, che divenne un punto di riferimento per la guidistica ad uso dei viaggiatori francesi nella Penisola. Il testo abbonda di annotazioni ‘professionali’ sulla fattura, sul gusto e sulla qualità delle opere viste dall’autore, in cui non mancano osservazioni critiche.
Nel passaggio su Piazza dei Cavalieri si sofferma in particolare sulla descrizione degli interni della chiesa di Santo Stefano. Qui l’uso di un verbo al condizionale segnala l’incertezza del connoisseur: in effetti solo una pala è del Bronzino (la Natività di Cristo), mentre l’altra (la Lapidazione di S. Stefano) è di Giorgio Vasari. Stessa attenzione al dettaglio si ritrova nella descrizione dell’altare maggiore di Giovan Battista Foggini, da cui già emerge l’insofferenza per la magniloquenza della scultura barocca, di lì a poco osteggiata dal nuovo gusto neoclassico. Infine, l’accenno alle facciate di case decorate non può non includere gli esempi offerti dai palazzi che affacciano su Piazza dei Cavalieri e dal suo rappresentante più illustre: il Palazzo della Carovana, peraltro non citato esplicitamente dall’incisore.
Il servizio marittimo (‘carovane’) che i cavalieri dovevano fare dura tre anni; trascorrono il tempo, in cui non sono in mare, a Pisa e vivono in una grande casa conventuale, dove ognuno ha il proprio appartamento e l’Ordine gli fornisce legna, candele e sale per uso personale e per quello dei suoi servitori, e un salario fisso per il mantenimento. […]
La piazza antistante la chiesa dei Cavalieri di Santo Stefano è circondata da bei palazzi e decorata da una fontana, sopra la quale si trova la statua stante del granduca Cosimo I [de’ Medici], il fondatore dell’Ordine. Sulla grande vasca è situata la figura grottesca di un mostro marino, con le gambe umane, il corpo e le pinne di un pesce, la testa simile a quella di un granchio (o gambero di mare), nel complesso di buona fattura.
La facciata della chiesa è di marmo ed è stata disegnata da Vasari. L’altare maggiore, interamente ricoperto di porfido, è opera dello scultore fiorentino [Giovanni Battista] Foggini. I quadri della chiesa sono per la maggior parte di scuola fiorentina e di discreta qualità: di particolare rilievo è una Natività di Gesù Cristo, opera del Bronzino...[sic] Al fregio della chiesa sono attaccati diversi vessilli e stendardi delle galee turche catturate dai Cavalieri di Santo Stefano.
Les caravanes que doivent faire les chevaliers, sont de trois ans ; ils passent à Pise le temps qu’ils ne sont pas en mer, & habitent dans une grande maison conventuelle, où chacun a son appartement, où la religion lui fournit du bois, de la chandelle & du sel pour son usage & celui de ses domestiques, & une solde fixe pour son entretien. […]
La place qui est devant l’église des chevaliers de saint Etienne, est entournée de beaux bâtiments, & décorée d’une fontaine, au-dessus de laquelle est la statue pédestre du grand-duc Cosme premier, instituteur de l’ordre. Sur le grand bassin est une figure grotesque de monstre marin, qui a les jambes d’un homme, le corps & les nageoires d’un poisson, la tête d’un cancre ou écrevisse de mer, d’un beau travail.
La façade de l’église est revêtue de marbre ; elle a été exécutée sur les desseins du Vasari. Le maître-autel, entièrement revêtu de porphyre, est l’ouvrage du Foggini, sculpteur de Florence. La plupart des tableaux de cette église sont de l’école Florentine, & d’assez bonne main : on y remarquera surtout une Nativité de Jésus-Christ, par le Bronzin…[sic] A la frise de l’église sont attachés plusieurs fanaux & étendards des galères turques prises par les chevaliers de saint Etienne.
Description historique et critique de l’Italie (1766)
Nato a Digione nel 1720, Jérôme Richard è stato uno scrittore e religioso francese. Poche e incerte le informazioni biografiche, tra cui luogo e data di morte. Canonico dell’abbazia di Vézelay, fu membro dell’Accademia della sua città natale, nonché della sezione di zoologia dell’Institut National. Svolse anche attività di precettore privato. Nel 1761, in compagnia del presidente del Parlamento di Borgogna Jean-François Charles, compì un lungo viaggio in Italia, di cui diede un resoconto dettagliato nella sua Description historique et critique de l’Italie, ou Nouveaux mémoires sur l’état actuel de son gouverement, des sciences, des arts, du commerce, de la population et de l’histoire naturelle, stampata in sei volumi nel 1766.
Il testo, che avrà vasta eco specialmente per le sue analisi sul Regno di Napoli, si presenta come una guida completa – d’«utilité réelle» – per introdurre non solo alle bellezze artistiche della Penisola, ma anche per fornire una conoscenza ‘immersiva’ della realtà italiana. Nell’Avertissement alla prima edizione, Richard propone un affondo teorico su un nuovo modo di fare letteratura di viaggio, impostando una ricerca sociologica ante litteram. Il suo lavoro consiste nel raccogliere informazioni dentro al «gabinetto del ministro di stato, sul bancone del negoziante e anche nella bottega dell’artigiano» («cabinet du ministre d’État, dans le comptoir du négociant, & même dans la boutique de l’artisan») e di «parlare con il contadino e il pastore» («parler au cultivateur & au berger»). Infine, si propone il compito di comparare le risposte con lo stato effettuale delle cose che vede e di cui fa esperienza diretta.
Richard entra a Pisa provenendo da Empoli. Nella sua ampia descrizione storica e urbanistica della città, il canonico ne ricorda la passata grandezza definendola «una delle città più potenti d’Europa» («une des villes les plus puissantes de l’Europe») e indugiando in una minuziosa analisi della struttura dell’Ordine, della sua costituzione, nonché della vita comunitaria dei Cavalieri di Santo Stefano. L’analisi della Piazza è completa e informata, soffermandosi in particolare sull’interno della chiesa dell’Ordine. Richard è infine uno dei pochi viaggiatori a fornire una descrizione minuziosa e originale della figura grottesca posta sopra la vasca, ai piedi della statua di Cosimo I.
L’attuale esistenza di Pisa è dovuta alla cura con cui i suoi successori [di Cosimo I de’ Medici] hanno bonificato le paludi, fatto fiorire l’Università e istituito l’Ordine di Santo Stefano. Credo, tuttavia, che Livorno le abbia fatto del male.
C’est aux soins qu’ils ont pris, lui successeurs, de dessécher les marais, de faire fleurir l’université de Pise, et d’y établir l’ordre de St. Etienne qu’il faut attribuer l’existence actuelle de Pise. Je compte cependant que Livourne lui a nui.
Journey (post 1764)
Edward Gibbon (Putney 1737-Londra 1794) è stato uno storico e scrittore inglese. Noto per la sua opera monumentale The History of the Decline and Fall of the Roman Empire pubblicata in sei volumi tra il 1776 e il 1789, rappresenta una figura di passaggio tra la vecchia scuola antiquaria e la nuova storia filosofica.
In una lettera da Losanna, datata 14 aprile 1764, Gibbon descrive al padre l’itinerario del viaggio che avrebbe compiuto di lì a pochi giorni in Italia: dal valico del Moncenisio avrebbe raggiunto Torino; poi, verso Est: Isole Borromee, Milano, Brescia, Padova, Venezia; dopo una discesa a Ferrara il tragitto avrebbe ripreso a Ovest: Bologna e Firenze. Da qui a Siena. «Quando arriveremo a Firenze, quel luogo, insieme a Livorno, Pisa, Lucca e così via, ci fornirà materiale in abbondanza per due o tre mesi fino alla fine di ottobre, quando ci riproponiamo di andare a Roma» («When we get beck to Florence, that place with Leghorn, Pisa, Luca &c., will furnish us ample matter for between two and three months till the latter of October when we propose going to Rome»).
Nell’autobiografia pubblicata postuma (1799), lo storico inglese ricorda con minuzia la lunga e ponderosa preparazione al viaggio, interamente consacrata allo studio delle fonti antiche, di prima mano o tratte da compilatori moderni: Strabone, Plinio, ma anche Rutilio Namaziano fra gli altri, in cui Pisa risulta abbondantemente citata. Lo storico inglese entra nella città toscana lunedì 24 settembre 1764 e vi permane un solo giorno. Gibbon prende nota nel suo diario (scritto in francese a partire dal 4 agosto del 1761 e rimasto inedito per secoli al di là di alcuni excerpta pubblicati nei Miscellaneous Works del 1796 e del 1814) di tutte le vestigia romane ancora presenti sul territorio municipale: dall’iscrizione (della cui autenticità dubita) attribuita a Antonino Pio, ai sarcofaghi pagani conservati nel Camposanto monumentale. La preponderanza di questo interesse oscura, tuttavia, la dimensione medievale e moderna della città, filtrata dalle lenti di François Maximilien Misson, da cui Gibbon riprende uno degli snodi critici: i Medici e in generale il dominio fiorentino le hanno giovato o nociuto? Per lo storico inglese, se la Repubblica pisana è stata fiorente, va tuttavia riconosciuto a Cosimo I e ai suoi successori il merito di aver salvato la città dal declino. Oggettivato nella magnificenza della sua piazza, l’Ordine di Santo Stefano, sebbene avesse oramai dismesso da anni (1719) ogni operatività militare, rappresenta per Gibbon uno dei fiori all’occhiello della rinascita pisana.
Eravamo curiosi di vedere la Torre della Fame, che venne chiamata così dopo la morte di Ugolino e dei suoi figli; ma non ne esiste alcuna traccia e si discute addirittura sulla posizione del sito in cui sarebbe sorta.
Wir waren neugierig, la ‘Torre della Fame’ (den Hungerthurm), welcher nach Ugolino’s und seiner Söhne Tod so benannt worden, zu sehen; aber es ist keine Spur von ihm vorhanden, und es wird sogar über den Ort gestritten, wo er gestanden haben soll.
Reise in Deutschland, der Schweiz, Italien und Sizilien (1822)
Friedrich Leopold zu Stolberg-Stolberg (Bramstedt Holstein 1750-Sondermühlen Osnabrück 1819) è stato un poeta e scrittore tedesco. Studiò legge all’Università di Halle. Ministro residente della città di Lubecca tra il 1777 e il 1781, partecipò alla vita culturale del Göttinger Hainbund, costola del movimento Sturm und Drang, nel quale si avvicinò alle posizioni di Friedrich Heinrich Jacobi e Johann Gottfried Herder. Autore di opere poetiche (Gedichte, 1779), teatrali (Apollon’s Hain, 1786), nonché di un’importante novella a carattere utopico (Die Insel, 1788), a seguito della Rivoluzione francese e in parte anche del suo viaggio italiano del 1791-1792 si convertì alla fede cattolica, suscitando profondo clamore nei circuiti intellettuali tedeschi. Dopo importanti incarichi diplomatici si ritirò a vita privata, dedicandosi alla composizione di opere di carattere storico e religioso.
Friedrich Leopold descrive la visita pisana in una lettera (la numero XLIII della sua Reise) datata 18 dicembre 1791. Come per Friedrich von Matthisson, di cui fu contemporaneo e che compì il suo viaggio in Italia solo pochi anni dopo (1795), anche nella descrizione del conte tedesco si ritrova lo stesso impressionismo descrittivo, ai limiti del bozzettismo. Il gusto romantico dello scrittore accorda preminenza all’annotazione naturalistica (in particolare al paesaggio, al clima, alla flora e ai prodotti della terra), all’appunto folklorico (viene ricordato ad esempio il tradizionale Gioco del Ponte) e all’architettura medievale, di cui Friedrich Leopold rinverdisce, non senza una soddisfazione nazionalistica, il luogo comune erroneo che identificava il costruttore della Primaziale pisana con un tedesco.
Tale orientamento di gusto modifica nel profondo la percezione della città e dei suoi spazi: il nuovo punto focale della mappa cittadina, accanto alla solita Piazza dei Miracoli, sono ora i Lungarni, i palazzi nobiliari che vi si affacciano (costruiti secondo l’autore tedesco, che anche qui segue un’antica vulgata, da Michelangelo) e le Logge dei Banchi. Anche per il conte, dunque, la Pisa medicea scompare e con essa si eclissa la fortuna della Piazza dei Cavalieri vasariana. Essa aleggia tuttavia nell’evocazione della Torre della Fame e dell’episodio dantesco.
Inglobata nell’attuale Palazzo dell’Orologio tra il 1605 e il 1608, dell’antica struttura si persero persino le tracce (perlomeno per il pubblico dei non specialisti). Dopo poco meno di due secoli si avvera così solo in parte la volontà del granduca Ferdinando I de’ Medici che volle far sparire «questa memoria infame di questa Torre che è veramente una memoria infame»: se da un lato infatti l’edifico risulta irreperibile, il suo mito continua a fiorire attraverso generazioni di visitatori.
Il nostro occhio spazia… fino ai Bagni di Pisa, ai piedi dei monti dei quali l’autorevole Dante narra: «per che i Pisan veder Lucca non ponno». Del teatro della più terribile catastrofe che il destino riservò a Ugolino, immortalato da Dante, [Heinrich Wilhelm von] Gerstenberg e [Joshua] Reynolds, cioè la famigerata Torre della fame di Ugolino, non si ha più la minima traccia. Nessun mortale sa dare indicazioni sul punto in cui cadde in Arno la chiave fatale del carcere.
Unser Auge trug… bis zu den Pisanischen Bädern, am Fusse der Gebirgshöhe, von welcher der ehrwürdige Dante sagt, «dass die Pisaner dadurch verhindert werden, Lucca zu sehen». Von Ugolinos, durch Dante, Gerstenberg und Reynolds, verewigtem Lokal der schrecklichsten Schicksalskatastrophe, ich meine den berüchtigten Hungerthurm, wird auch nicht die kleinste Spur mehr angetroffen. Kein Sterblicher weiss anzugeben, an welcher Stelle der verhängnissvolle Kerkerschlüssel in den Arno fiel.
Fragmente aus Tagebüchern und Briefen (1814)
Friedrich von Matthisson (Hohendodeleben 1761-Wörlitz 1831) è stato uno scrittore e poeta tedesco. Frequentò l’università di Halle, dove studiò filosofia e teologia. Insegnò al Philanthropin di Dessau. Assunse quindi per diversi anni la carica di precettore privato, impegno che lo costrinse a continui spostamenti. Dal 1794 al 1811 servì come lettore alle dipendenze della principessa Luise von Anhalt-Dessau. A causa della salute cagionevole di quest’ultima, che le imponeva soggiorni in aree dal clima più favorevole, Matthisson poté trascorrere diversi periodi in Italia. Nel novembre 1795 sostò a Pisa, diretto verso Roma. Alla morte della principessa si stabilì a Stoccarda, dove assunse l’incarico di intendente del teatro locale e bibliotecario fino al 1828. Poeta romantico, fu autore Lieder apprezzati da Friedrich Schiller e Christoph Martin Wieland, nonché di Reisebilder nati dall’esperienza italiana. Un suo testo, Adelaide, è stato musicato da Ludwig van Beethoven. Al di là della vastità del suo lascito (la sua opera completa, stampata a Zurigo tra il 1825 e il 1829, consta di otto volumi), la sua produzione letteraria è stata rapidamente classificata come epigonale.
Le note che l’autore stende su Pisa sono intrise di gusto preromantico: forte impressionismo naturalistico, accumulo di similitudini iperboliche con termini di confronto classici (Pisa viene associata a Cartagine e Corinto), ma soprattutto una forte predilezione per un medioevo di maniera, in cui prevale un cattolicesimo molto estetizzato (fatto di cerimonie e rituali) e l’orroroso. In un clima simile, non c’è più spazio per il fasto tardo cinquecentesco di Piazza dei Cavalieri e il suo apparato scenografico funzionale alla politica medicea. A cambiare, per chi giunge in visita da fuori, è dunque la percezione dello spazio urbano e il modo di gerarchizzarlo: a essere centrale è la Pisa repubblicana e medievale, mentre viene marginalizzata l’eredità fiorentina cinque-seicentesca. Se perde centralità la piazza voluta da Cosimo I, ne assume molta invece la memoria dantesca e le sue vestigia, in particolare attraverso la Torre della Fame e l’episodio narrato in Inferno, XXXIII. Sebbene il riferimento alla chiave potrebbe alludere a una lettura diretta della Nova cronica di Villani, il richiamo all’episodio di Ugolino della Gherardesca diventa centrale soprattutto grazie alle moderne riprese pittoriche (Joshua Reynolds, Count Ugolino and his Children in the Dungeon, ca. 1773, Knole House, Kent) e teatrali (Heinrich Wilhelm von Gerstenberg, Ugolino, 1768).
Piazza Santo Stefano e i suoi dintorni
Questa piazza viene sempre citata, probabilmente perché è l’unica a Pisa oltre alla bellissima Piazza del Duomo, ma è molto irregolare e piccola. È chiamata anche la Piazza de’ Cavalieri, dai Cavalieri di Santo Stefano. Quest’ordine cavalleresco è stato istituito da Cosimo I [de’ Medici] per combattere gli infedeli ed è diventato subito straordinariamente ricco e potente grazie alle sue donazioni e dotazioni, continuate con i signori successivi. L’Ordine interveniva con numerose galere e fregate contro gli infedeli e serviva per tenere libero il Mediterraneo. Con Leopoldo [Pietro Leopoldo I di Toscana] queste crociate sono cessate, ma non l’Ordine.
Qui si può vedere anche il Palazzo dei Cavalieri, un edificio molto maestoso, ornato da sei busti dei principi medicei e dei loro antenati, esposti entro piccole nicchie sopra il primo piano. Anche all’interno si può ammirare qualche cosa curiosa, ritratti e alcuni dipinti. Di fronte al palazzo si trova la statua di Cosimo, il fondatore di quest’ordine, eretta dai Cavalieri per riconoscenza sotto Ferdinando II [sic], come recita l’iscrizione. Non ha nulla di eccellente, non più della fontana che dovrebbe abbellire la piazza.
I Cavalieri hanno anche una chiesa proprio accanto al palazzo, con una facciata gradevole. Ha una sola navata e nulla di grandioso; le decorazioni e i dipinti all'interno sono di qualità mediocre e la maggior parte delle bandiere e delle insegne turche e barbaresche che vi erano appese sono state tolte, dato che l’Ordine non ha più una sola galera in mare e il suo arsenale sull’Arno è vuoto. Di fronte al palazzo si trova il Collegium Puteanum e un altro collegio, dove si insegna diritto feudale, destinato forse anch’esso a finire presto tra le antiche rarità.
La cosa più curiosa, in questa zona urbana, sono i resti della famosa Torre della Fame, che riveste una così grande importanza nella Divina Commedia di Dante. Ugolino della Gherardesca (famiglia che tuttora esiste a Pisa) fu sospettato di tradimento, con l’accusa di aver consegnato la patria al nemico e di volerne diventare il capo. Questi eventi vengono a cadere nell’anno 1282, periodo in cui i pisani erano stati così sfortunati nelle battaglie contro Genova e Ugolino era il capo dei guelfi, che in quel momento avevano il sopravvento. Ma vinsero i ghibellini, egli fu imprigionato in una torre insieme ai suoi figli, e con loro morì di fame in modo atroce.
Ho udito spesso dai viaggiatori e ho spesso trovato scritto che questa Torre della Fame, come viene chiamata da Dante, ancora esiste e alcuni la collocano audacemente sull’Arno, dove non esiste traccia di alcuna torre. Addirittura qui a Pisa questa torre, ovvero questo rudere, viene chiamato la Torre d’Ugolino, ma chi è ben informato e conosce qualcosa di più della storia di quei tempi bui, la colloca unanimemente in Piazza dei Cavalieri. In un piccolo giardino, a fianco del Palazzo dei Cavalieri, si trova un’antica struttura in muratura, che ora confina con altre abitazioni e mura, è provvista in basso di una orrenda inferriata, e si inabissa in terra con le sue possenti strutture; i rami di un pesco in fiore si protendono verso l’alto, accanto a lei. Molti la considerano gli ultimi resti di quella torre dell’orrore e di certo ne ha l’aspetto; né le sue pietre grigie, ricoperte di muschio ne contraddicono la fama. La vidi con sgomento e, pensando al diabolico banchetto di Ugolino, sono proseguito oltre.
Der Stephansplatz und seine Anhängsel.
Dieses Platzes erwähnt man immer, wahrscheinlich, weil er nach dem schönen Domplatz der einzige in Pisa ist, aber er ist ein sehr unregelmäßiger und kleiner. Er heißt auch la piazza de’ Cavalieri, der Ritterplatz, von den St. Stephansrittern. Dieser Ritterorden ward von Kosmus dem Ersten gegen die Ungläubingen gestiftet und durch Schenkungen und Stiftungen unter ihm und den folgenden Herren bald ausserordentlich reich und mächtig. Er zog mit mehreren Galeeren und Fregatten gegen die Ungläubigen aus und diente, das Mittelmeer rein zu halten. Seit Leopold aber haben diese Kreuzzüge aufgehört, nicht aber der Orden.
Hier sieht man auch den Pallast der Ritter, ein ganz stattliches Gebäude, welches sechs Büsten der mediceischen Fürsten und ihrer Ahnen schmücken, die über dem ersten Stock in kleinen Nischen prangen. Auch im Innern sind manche Schnurrigkeiten, Porträts und einige Gemählde zu sehen. Vor dem Pallaste steht die Statue Cosmus, des Stifters dieses Ordens, von den Rittern aus Dankbarkeit unter Ferdinand dem Zweiten gesetzt, wie die Inschrift sagt. Es ist nichts Vorzügliches, so wenig als der Springbrunnen, der den Platz zieren soll.
Auch eine Kirche haben die Ritter gleich am Pallaste mi einer zierlichen Facciata. Sie hat nur ein Schiff und nichts Großes und die Verzierungen und Gemählde drinnen sind auch nur von der mittelmässigen Ort, und was sonst von türkischen und barbarischen Fahnen und Insignien dort aufgehängt war, ist auch meist weggenommen, da der Orden keine einzige Galeere mehr in See hat und sein Arsenal am Arno leer steht. Dem Pallaste gegenüber ist das Collegium puteanum und ein anderes, wo das Lehnrecht gelesen wird, das vieleicht auch bald zu den alten Raritäten gehören wird.
Aber das Merkwürdigste in dieser Region sind die Ueberbleibsel des berühmten Hungerthurms, der in Dantes göttlicher Komödie eine so große Rolle spielt. Ugolino della Gherardesca (eine Familie, die bis heute in Pisa existirt) kam in Verdacht, sein Vaterland an die Feinde verrathen zu haben und sich zu seinem Haupte aufwerfen zu wollen. Diese Zeit fällt in die Epoche, als die Pisaner in den Seeschlachten gegen Genua so unglücklich waren, ins Jahr 1282, und Ugolino war das Haupt der Welfen, die nun triumphirten. Doch siegten die Ghibellinen, er ward mit seinen Söhnen in einen Thurm geworfen und starb mit ihnen den gräßlichen Hungertod.
Ich habe bei Reisenden und in andern Schriften oft gefunden, daß dieser Hungerthurm, wie er von ihm heißt, noch stehe, und einige setzen ihr ganz kühn an den Arno, wo doch keine Spur von einem Thurm ist. Ja hier in Pisa selbst nennt man diesen und jenen Thurm oder Gemäuer la Torre d’Ugolino; aber die Unterrichteten und die von der Geschichte aus jener düstern Zeit etwas mehr wissen, setzen ihn einstimmig an den Platz der Rittern. In einem kleinen Garten, zur Seite des Ritterpallastes ist ein altes Gemäuer, das sich jetzt an die übrigen Wohnungen und Mauern anschließt, unten mit einer fürchterlich vergitterten Eisenwehr versehen, und mit seinen dickten Mauern tief in die Erde hinablausend; jetzt schlang ein blühender Pfirsich seine Zweige an ihm empor. Dies nennen die meisten das letzte Ueberbleibsel jenes Schreckenthurms, und es hat freilich ganz die Miene desselben und seine grauen und bemoosten Steine widersprechen auch dem Rufe nicht. Ich sah ihn mit Grausen, an Ugolinos Teufelsmahl denkend und ging fürbass.
Reisen durch einen Theil Teutschlands, Ungarns, Italiens und Frankreichs (1801)
Ernst Moritz Arndt (Schoritz 1769-Bonn 1860) è stato uno scrittore e politico tedesco. Di umili origini, studiò teologia e storia a Greiswald (1791), per poi passare all’Università di Jena nel 1793. Nel 1798 cominciano le sue peregrinazioni in giro per l’Europa, da cui ne trarrà un ricco resoconto, poi pubblicato in sei volumi tra il 1801 e il 1803 con il titolo Reisen durch einen Theil Teutschlands, Ungarns, Italiens und Frankreichs in den Jahren 1798 und 1799. Dell’Italia, di cui visitò solo il Settentrione e la Toscana, apprezzò le tracce rinascimentali e il carattere degli abitanti che, nella sua ottica romantica e nazionalistica, erano riusciti a conservare la propria autonomia nonostante secoli di giogo straniero. Aspramente critico nei confronti della Rivoluzione francese, dei suoi fondamenti filosofici, nonché dei suoi esiti politici, tra il 1803 e il 1808 pubblicò una serie di opere a carattere storiografico, nelle quali espose la sua dottrina politica: se da un lato a fondamento del principio di umanità vi è il concetto di patria, il suo auspicio è il ripristino di una civiltà germanica a trazione prussiana e austriaca, che dia vita ad un vero e proprio impero tedesco. Fu tra i più accaniti promotori di una guerra patriottica e di popolo contro la Francia napoleonica, cui contribuì con le sue composizioni poetiche che ebbero vastissima eco tra il 1812 e il 1813. Di idee liberali, fu estromesso dall’insegnamento all’Università di Bonn nel 1818. Riottenne l’incarico solo nel 1840, mentre l’anno successivo fu nominato rettore da Federico Guglielmo IV di Prussia. Alla sua morte, nel 1860, gli venne dedicato un monumento nell’isola di Rügen.
Nel marzo del 1799 Arndt è a Pisa. Della città fa un’ampia e dettagliata descrizione, non priva di annotazioni critiche. Come per tutti i visitatori di gusto romantico, l’Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano perde centralità (Arndt ne ricorda la fine della dimensione militare da poco sancita da provvedimenti di Pietro Leopoldo I di Toscana). La stessa Piazza dei Cavalieri è trattata dal visitatore quasi con sufficienza: se il Palazzo della Carovana adorno dei «sei busti di principi medicei» è «un edificio molto imponente», nella statua di Cosimo I (di cui ricorda l’iscrizione dove è riportato il nome di Ferdinando I de’ Medici, terzo granduca di Toscana) e nella fontana «non vi è niente di eccellente». Il visitatore tedesco non risparmia le sue critiche neppure ai dipinti (tra cui le due pale di Bronzino e Vasari) conservati nella chiesa di Santo Stefano, giudicati «mediocri». Quello che invece affascina Arndt è il ricordo dantesco dell’episodio di Ugolino e della sua prigionia nella Torre della Fame. Sebbene si possano rinvenire alcune imprecisioni nella sua ricostruzione (sarebbe forse più opportuno porre la congiuntura che descrive sei anni dopo, nel 1288, con la presa del Palazzo del Capitano del Popolo), va dato il merito allo storico tedesco di essere uno dei pochi visitatori stranieri a ricollocare correttamente la Torre della Fame in Piazza dei Cavalieri. Poco male se un sovrappiù di fantasia romantica gli faccia scorgere le ultime tracce della struttura in un rudere da collocarsi probabilmente alle spalle dell’attuale Palazzo dell’Orologio. Nel 1799, infatti, da quasi due secoli la torre era stata totalmente assorbita in questo edificio, oggi sede della Biblioteca della Scuola Normale, allora adibito a residenza per i cavalieri anziani dell’Ordine di Santo Stefano.
Più avanti, sullo stesso lato della strada [di Palazzo Lanfreducci], si trova l’antico Palazzo Ducale, che si dice sia stato teatro dell'assassinio di Don Garzia [de’ Medici] da parte di suo padre [Cosimo I], oggetto di una delle tragedie di [Vittorio] Alfieri; e tra i due, un po’ prima di arrivare all’antico palazzo, si trova la dimora già citata [Palazzo Toscanelli], in cui risiedeva e che ancora possiede la famiglia dei Lanfranchi, un tempo una delle più potenti di Pisa. Furono tra i nobili che complottarono contro l’ascesa del conte Ugolino e che si dice (ma non è vero) che avessero compiuto quella vendetta su di lui e sui suoi figli ricordata da Dante, senza la dovuta conoscenza dei fatti. La torre in cui Ugolino morì fu in seguito chiamata Torre della Fame. [Geoffrey] Chaucer, che si suppone sia stato in Italia, dice che si trovava «un po’ fuori» Pisa; [Giovanni] Villani riferisce che era nella Piazza degli Anziani. Si ritiene che non esista più, e anche sulla sua collocazione si discute.
Further up on the same side of the way, is the old ducal palace, said to be the scene of the murder of Don Garcia by his father, which is the subject of one of Alfieri’s tragedies: and between both, a little before you come to the old palace, is the mansion before mentioned, in which he resided, and which still belongs to the family of the Lanfranchi, formerly one of the most powerful family in Pisa. They were among the nobles who conspired against the ascendancy of Count Ugolino, and who were said, but not truly, to have wreaked that revenge on him and his children, recorded without a due knowledge of the circumstances by Dante. The tower in which Ugolino perished was subsequently called the Tower of Famine. Chaucer, who is supposed to have been in Italy, says that it stood «a little out» of Pisa; Villani says, in the Piazza of the Anziani. It is understood to be no longer in existence, and even its site is disputed.
Leigh Hunt (Southgate 1784-Putney 1859) è stato un giornalista, poeta e saggista inglese. Esordisce giovanissimo come scrittore in versi con la raccolta Juvenilia pubblicata nel 1801, in cui mette in mostra una notevole capacità di imitazione dei modelli metrici italiani. Nel 1808 inizia invece la sua carriera come pubblicista: apre, assieme al fratello John, il settimanale Examiner, sul quale dà avvio a una serie di battaglie politiche di ispirazione liberale e di invettive contro il principe reggente che costerà loro, nel 1813, il carcere. Critico letterario e d’arte, si espresse in difesa dei princìpi romantici. Fu amico dei maggiori letterati del tempo, tra cui John Keats e Percy Bysshe Shelley, di cui collaborò a diffondere le opere. Secondo quanto racconta nella sua Autobiography (1850), fu proprio su suggerimento di quest’ultimo che nel 1822 Hunt si recò a Pisa, per lanciare assieme a Lord Byron l’impresa editoriale di The Liberal, che tuttavia naufragò dopo soli quattro numeri. La sua passione per l’Italia si espresse non solo nei soggiorni toscani e nella sperimentazione metrica (da menzionare il volume sulla poesia pastorale siciliana del 1848), ma anche nella produzione di alcune opere di rilievo, tra cui il poema The Story of Rimini (1816).
Le annotazioni su Pisa sono consegnate anche in diverse pagine apparse su The Liberal, oltre che alla sua Autobiography, dove, anche in ossequio ai vincoli dettati dallo specifico genere letterario, Hunt indulge spesso in considerazioni impressionistiche, di ordine personale, che vanno dall’aspetto dei cittadini pisani alla purezza della lingua. Interessante constatare come, nella personale topografia di Hunt, il Campo dei Miracoli sia relegato a una visita quasi secondaria, del tutto slegata dal contesto cittadino. La preminenza nello scrittore inglese (seguito in ciò dai suoi colleghi romantici) è ora affidata ai Lungarni e a uno speciale itinerario tracciato più a partire da curiosità avventurose e reminiscenze letterarie che dalla storia dei luoghi. Ecco allora la menzione di Palazzo Lanfreducci (ricordato per il celebre quanto misterioso motto «Alla giornata», ancora presente nella sua facciata), il richiamo al «vecchio palazzo ducale» (prima dimora pisana di Cosimo I; ora sede della Prefettura), teatro di una scena del dramma di Vittorio Alfieri, Don Garzia, e la citazione di un palazzo (l’attuale Palazzo Toscanelli, ora sede dell’Archivio di Stato), ricordato proprio in quanto dimora di Lord Byron (e dello stesso Hunt). La vasariana e cinquecentesca Piazza dei Cavalieri è obliata: a tenerne vivo il ricordo è ancora il mito dantesco (corroborato dalle due fonti medievali di Chaucer e Giovanni Villani) di Ugolino della Gherardesca e della Torre della Fame. Nonostante l’attenzione poetica per un genere come quello pastorale eminentemente barocco (nel 1820 traduce l’Aminta di Torquato Tasso), la sua passione politica di ispirazione democratica e liberale e la sua vicinanza sentimentale al romanticismo legano Hunt a un immaginario medievale o tardo illuministico.
Volendo commettermi ad un viaggio di tal natura, non saprei d’onde meglio partirmi che dalla città di Pisa. Essa ricorda Ugolino; e quantunque, la Dio mercè, non corrano più quei tempi in che citavasi [della Divina Commedia] soltanto l’episodio di Ugolino e quello di Francesca da Rimini, lasciando in non cale il rimanente poema come barbaro e indegno di occupare le menti de’ buongustai, non pertanto l’istoria del supplizio inflitto al capo pisano è uno dei più prodigiosi brani del sublime poema di Dante, e da non potersi in alcun modo dimenticare, specialmente nella città ove fu compiuto l'orribile fatto.
Cercai il luogo testimone della tragedia che Dante ci dipinge in un breve e terribile racconto, e di cui un poeta tedesco, [Heinrich Wilhelm von] Gerstenberg, ha dato un componimento in cinque atti, cinque atti di agonia! La tradizione aveva conservato ad una torre di Pisa il nome datole da Dante, di Torre della fame, ma oggi non esiste più. Fortuna pei viaggiatori! Gli antiquari avrebbero ad essi contrastato il diritto di fremere alla vista di un mucchio di rovine. Alcuni credevano trovarsi la torre sulla Piazza dei Cavalieri, altri sull'imbasamento dell'antico palazzo del Comune.
Un voyage tel que celui-ci ne peut mieux commencer que par Pise. Pise rappelle Ugolin ; et bien qu’on n’en soit plus, grâce à Dieu, au temps où l’on ne citait de la Divine Comédie que l’épisode d’Ugolin et l’épisode de Françoise de Rimini, laissant de côté le reste du poëme comme barbare et indigne d’occuper les gens de goût, cependant l’histoire du supplice infligé au chef pisan n’en reste pas moins un des morceaux les plus étonnants de l’étonnant poëme de Dante, un de ceux qu’il est impossible d’oublier, surtout ici.
J’ai cherché le lieu où s’est passée la tragédie que Dante a resserrée dans un récit court et terrible, et qu’un poëte allemand, Gerstenberg, a étendue sur une surface de cinq actes, cinq actes d’agonie ! La tradition avait conservé à une tour de Pise le nom que Dante lui donne, le nom de Tour de la Faim, mais cette tour n’existe plus. Il est heureux pour les voyageurs qu’il en soit ainsi. Se prenaient-ils à frémir à la vue d’un débris, les antiquaires leur en contestaient le droit. Les uns retrouvaient la tour sur la place des Chevaliers, les autres sur l’emplacement de l’ancien palais de la commune.
Voyage dantesque (1848)
Jean-Jacques Ampère (Lione 1800-Pau 1864) è stato uno scrittore e storico francese. Figlio del noto fisico André-Marie, esordisce nel mondo letterario come autore di tragedie. Passò poi allo studio della mitologia scandinava, per il quale fu insignito di una cattedra di Storia della letteratura straniera alla Sorbona di Parigi (1830). Nel 1833 passò al Collège de France. In questo periodo furono elaborate le sue opere più significative: l’Histoire littéraire de la France avant le douzième siècle (1839-1840) e Histoire de la formation de la langue française (1841). Per il suo approccio teorico, in cui statuisce un nesso alquanto rigido tra condizioni ambientali e causazione storica, Ampère è considerato uno dei precursori della scuola positivista francese e in particolare dei lavori di Hippolyte Taine. Nel 1847 è eletto membro dell’Académie Française, mentre dal 1851 è socio corrispondente dell’Accademia delle Scienze di Torino, e dal 1859 della Crusca. Viaggiatore instancabile, visitò diversi paesi dell’Europa settentrionale (nel 1826 è in Germania, ospite di Johann Wolfgang von Goethe), del Medio Oriente (in compagnia dello scrittore Prosper Mérimée) e delle Americhe (delle cui esplorazioni descrisse gli itinerari nel volume Promenade en Amérique: États-Unis, Cuba et Mexique, 1855).
Ampère visitò l’Italia in diverse occasioni. Il suo primo contatto risale al 1823. Da questa lunga frequentazione ne nacque un curioso volumetto dal titolo La Grèce, Rome et Dante. Études littéraires d’après nature (1848) che, nel capitolo Voyage dantesque, restituisce un suggestivo itinerario del Paese a partire dai luoghi legati alle opere e alla biografia di Dante. Se è lecito applicare un lemma moderno impiegato nei Media studies alla secolare e compassata dantistica, si potrebbe parlare di un vero e proprio lavoro di ‘fandomizzazione’ (processo per cui un’opera o un autore diventano il fulcro di un’ossessione positiva da parte dei suoi frequentatori). In questa ricerca Pisa si trasforma in uno dei centri della geografia dantesca: Piazza dei Cavalieri, allora, assume una rinnovata centralità come luogo in cui sorgeva l’antica Torre della Fame, sebbene, ancora nel 1848, vi fosse incertezza sulla sua esatta collocazione. Nel brano, infatti, Ampère, accenna a una seconda possibilità e cioè che questa avesse sede nel basamento del palazzo del Comune da collocarsi (ma sul punto non è improbabile un fraintendimento da parte dell’autore) nell’attuale Piazzetta Luciano Lischi, dove vi erano diverse strutture del Comune medievale, che si estendevano sino a occupare il lato sud-est di Piazza dei Cavalieri. Da segnalare infine che da soli due anni (1846) il Palazzo della Carovana ospitava la nuova sede della Scuola Normale Superiore, trasferitasi dalla precedente ubicazione pisana presso il Complesso San Silvestro. Il XIX secolo si conferma una delle fasi di maggior fortuna del mito medievale e dantesco: Pisa e in particolare Piazza dei Cavalieri ne gioveranno grandemente, inserendosi nelle più importanti traiettorie del turismo intellettuale europeo.
Mi si presentavano le sue vetuste mura; ma indarno io cercava la torre Vittoriosa e quella della Fame, ove Dante racconta esser avvenuta la tremenda morte del conte Ugolino e de’ suoi figli e nipoti… Se questi versi fanno rabbrividire solo al leggerli, quali terribili impressioni non colpirebbero l’animo se ancora si potesse posare in quella muda! […] Santo Stefano dei Cavalieri dell’Ordine di detto santo, chiesa cominciata da Vasari, racchiude varie bandiere, trofei guadagnati dai Cavalieri contro i Turchi, e diversi dipinti dell'Empoli, Gigoli [sic], Vasari, Bronzino, Allori, figuranti fatti dell'Ordine a cui apparteneva questa chiesa. E nella sua piazza sorge pure il Palazzo dei Cavalieri, disegno del Vasari, con facciata ornata di arabeschi a graffito. Qui vuolsi pure che sorgesse la torre del conte Ugolino, demolita nel secolo XVI; e qui sorge una statua di Cosimo I, del Francavilla, con una fontana. Tutto attorno alla piazza sonvi bei edifizi.
Peregrinazioni in Toscana (1863)
Antonino Bertolotti (Lombardore 1834-Mantova 1893) è stato uno scrittore e studioso italiano. Dopo l’abilitazione alla professione di farmacista, nel 1871 diviene impiegato al neonato Archivio di Stato di Roma. Qui ha modo di compulsare una vasta quantità di documenti – perlopiù inediti – che gli valsero importanti pubblicazioni scientifiche. In esse indagò, in particolare, i diversi aspetti biografici e sociali in cui si svolgeva la vita artistica in città tra il XV e il XVIII secolo, con diversi affondi su autori come Michelangelo, Benvenuto Cellini e Guglielmo Della Porta, ma anche su personaggi minori della storia italiana ed europea (del 1880 è Artisti belgi e olandesi a Roma nei secoli XVII e XVII, mentre nel 1886 viene pubblicato Artisti svizzeri in Roma nei secoli XV, XVI e XVII). Nel 1880 si spostò a Mantova, in qualità di direttore del locale Archivio di Stato, prima di assumere la libera docenza in paleografia all’Università di Roma.
Non si ha contezza della data esatta del viaggio di Bertolotti a Pisa, è certo tuttavia che esso si inserisce in un itinerario più ampio, che trova un referto nel volume del 1863 dal titolo Peregrinazioni in Toscana. La freschezza della prosa, intermezzata da citazioni e evocazioni letterarie, ma soprattutto da stralci di dialoghi occasionali e rievocazioni di episodi quotidiani, descrive una Pisa internazionale e aperta al turismo intellettuale. La dimensione narrativa è tuttavia sostenuta da continui affondi storici sui luoghi e i monumenti in cui emerge la precisione dell’archivista. Le informazioni relative alla piazza e ai suoi monumenti sono tutte scrupolosamente ponderate: si segnala solo l’omissione, tra agli autori dei dipinti presenti in Santo Stefano, di Jacopo Ligozzi e un’imprecisione relativa alla Torre della Fame. Se da un lato questo brano ricorda infatti come ancora nel 1863 fosse incerta (o comunque poco nota) la collocazione della Torre della Fame (e le illazioni sulla sua collocazione diventano quasi un gioco sociale tra i turisti colti dell’epoca), dall’altro se ne assume la demolizione nel XVI secolo. Sappiamo invece (ma il primo in età moderna a certificarne l’inglobamento nel Palazzo dell’Orologio fu Peleo Bacci, soprintendente alle Belle Arti, nel 1919) che la torre non fu demolita, se non parzialmente, quanto in realtà assorbita in una nuova struttura voluta da Ferdinando I de’ Medici tra il 1605 e il 1608. Inoltre, la scrittura di Bertolotti ricorda quanto il racconto di viaggio e della guidistica moderna, se da un lato fosse il referto di una testimonianza diretta, dall’altro attingesse da una lunga letteratura precedente, trasformandolo in un genere ampiamente formulare: in particolare nell’ultima frase citata riemergono gli echi dei testi di John Evelyn e di Charles de Brosses.
Certo, la Torre della Fame, alla quale soprattutto si associa il nome di Pisa, è stata rasa al suolo da molto tempo e i suoi resti reimpiegati nei vicini palazzi; ma si può ancora osservare il muro senza aperture che nasconde alla vista il sito in cui sorgeva; e da lì si può procedere, come abbiamo fatto noi, verso la grandiosa Piazza [dei Miracoli], dove si trova il contesto architettonico più impareggiabile al mondo, dopo quello di Piazza San Marco a Venezia.
To be sure, the Tower of Famine, with which we chiefly associate the name of Pisa, has been long razed to the ground, and built piecemeal into the neighboring palaces, but you may still visit the dead wall which hides from view the place where it stood; and you may thence drive on, as we did, to the great Piazza [dei Miracoli] where stands the unrivaledest group of architecture in the world, after that of St. Mark’s Place in Venice.
Italian Journeys (1867)
William Dean Howells (Martins Ferry 1837-New York 1920) è stato uno scrittore americano. Nato da una famiglia di stampatori ed editori, praticò fin da giovane il lavoro di tipografo e cronista. Estimatore di Lincoln, ne sostenne la candidatura attraverso un’ampia attività pubblicistica confluita in Lives and Speechs of Abraham Licoln (1860), che gli valse un viaggio in New England, dove ebbe modo di conoscere e frequentare la crema della società culturale statunitense. Dopo il successo conseguito alle elezioni, il presidente Lincoln ricompensò Howells nominandolo membro del consolato americano a Venezia, carica che ricoprì tra il 1861 e il 1865. Da quest’esperienza trasse diversi volumi di soggetto italiano: da una raccolta di saggi sui maggiori poeti nazionali (Modern Italian Poets, 1887), a scritti di memorie (Venetian Life, 1866 e Italian Journeys, 1867), nonché due opere di narrativa di ambientazione veneziana (A Foregone Conclusion, 1875 e The Lady of Aroostook, 1879). Romanziere di vaglia, Howells è ritenuto uno dei padri della scuola realista americana, spesso associato a figure del calibro di Henry James e Mark Twain.
Howells visita Pisa nel 1864. In parte proprio in grazia della sua sensibilità letteraria e della sua profonda conoscenza della tradizione poetica italiana, lo scrittore americano è uno dei pochi visitatori stranieri a porre la fama internazionale di Pisa interamente all’ombra della Torre della Fame. L’episodio dell’Ugolino dantesco crea un’eco tale da superare persino la monumentalità di Campo dei Miracoli. Piazza dei Cavalieri allora, dove correttamente Howells ricolloca la struttura dopo decenni in cui si era persa memoria persino di dove fosse ubicata, torna ad essere il centro internazionale di una città che da poco si era fatta ufficialmente italiana: a sancire la nuova fase interverrà la nuova denominazione della Scuola Normale (ora del Regno d’Italia) che occupava già dal 1846 l’edificio della Carovana. Sebbene sia arduo sostenere che lo scrittore avesse contezza di materiali d’archivio (il primo studio moderno sul tema, pubblicato da Clemente Lupi, risale al 1901), la sua affermazione circa «i frammenti riadoperati nei palazzi adiacenti» corrisponde a quanto riflettono le testimonianze storiche: durante la fase di rifacimento (e in particolare durante gli anni ottanta del Cinquecento) la torre venne «impiegata come cava di pietra per la sistemazione di altre proprietà dell’Ordine» (così Dino Frosini). Non può invece dirsi corretta la sua opinione (forse influenzata da Antonino Bertolotti?) circa la completa distruzione della struttura medievale, che era stata al contrario inglobata nell’odierno Palazzo dell’Orologio. Difficile infine identificare «il muro privo di aperture», cieco, che nascondeva il luogo in cui sorgeva la torre.
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