I modelli della chiesa

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I modelli della chiesa

Dopo il completamento del progetto vasariano con la facciata disegnata da Giovanni de’ Medici – largamente fedele alle sue intenzioni originali, come testimonia il confronto con il modello esposto al Museo Nazionale di San Matteo – la chiesa di Santo Stefano dei Cavalieri è comunque oggetto, fino al principio del Novecento, di numerose ipotesi di ampliamento o riconfigurazione: una dialettica che si potrebbe facilmente riassumere nei termini di una contesa tra conservazione, del minimalismo conventuale dell’edificio cinquecentesco, e viceversa richieste ricorrenti di adeguamento liturgico, allineate alle tendenze di gusto di volta in volta dominanti nell’architettura europea.

I due momenti più vivaci di questo dibattito sono registrati per l’appunto da altrettanti modelli, anch’essi conservati al San Matteo, realizzati in legno e (sebbene in quote significativamente diverse) scagliola, entrambi di scala notevole e dipinti con intenzioni mimetiche rispetto ai materiali previsti – già questo un significativo scarto rispetto alla maquette tardo-cinquecentesca della sola facciata, sostanzialmente monocroma e semplicemente verniciata.

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Foto di Giandonato Tartarelli, Scuola Normale Superiore. Su concessione del Ministero della Cultura – Direzione regionale Musei della Toscana – Firenze
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Pier Francesco Silvani, Modello per Santo Stefano dei Cavalieri a Pisa, particolare dell'interno con l’abside ampliata sul fondo e la nuova cappella sulla sinistra, 1682. Pisa, Museo Nazionale di San Matteo

Il primo modello appare sostanzialmente integro e in buone condizioni di conservazione, se si fa eccezione per la caduta di pochi dettagli ornamentali in scagliola; esso, dunque, restituisce con una certa vividezza il progetto elaborato da Pier Francesco Silvani nel 1682, in una fase tarda della sua carriera – morirà di lì a poco, nel 1685, proprio nei pressi di Pisa – che era iniziata oltre quarant’anni prima a Firenze, a fianco del padre Gherardo. I Silvani, per l’appunto, furono professionisti apprezzati dall’aristocrazia locale per la loro efficacia nell’ammodernare architetture identitarie come i palazzi di residenza e le cappelle monumentali, mantenendole allo stesso tempo, per lingua e tipologie, all’interno di una riconoscibile tradizione cittadina. Sempre nell’ambito dell’architettura liturgica, Pier Francesco diresse alcuni fra più importanti cantieri del Barocco fiorentino, come i Santi Michele e Gaetano – insieme al padre –, l’oratorio dei Filippini – subentrando a Pietro da Cortona –, la chiesa di San Frediano in Cestello, la cappella maggiore di Santa Maria Maddalena dei Pazzi e la stessa cattedrale.

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Pier Francesco Silvani, Modello per Santo Stefano dei Cavalieri a Pisa, particolare di metà facciata con l’aggiunta della nuova schermatura concava in corrispondenza del corpo laterale, 1682. Pisa, Museo Nazionale di San Matteo
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Pier Francesco Silvani, Modello per Santo Stefano dei Cavalieri a Pisa, particolare dell'esterno del cappellone laterale, 1682. Pisa, Museo Nazionale di San Matteo
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Pier Francesco Silvani, Modello per Santo Stefano dei Cavalieri a Pisa, particolare dell'abside con ordine corinzio e semicupola costolonata, 1682. Pisa, Museo Nazionale di San Matteo

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Pier Francesco Silvani, Modello per Santo Stefano dei Cavalieri a Pisa, dettaglio della cantoria mistilinea, 1682. Pisa, Museo Nazionale di San Matteo
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Pier Francesco Silvani, Modello per Santo Stefano dei Cavalieri a Pisa, dettaglio della nicchia a edicola, 1682. Pisa, Museo Nazionale di San Matteo

Con tutte queste esperienze, il progetto per Santo Stefano condivide riconoscibili tratti stilistici: l’impianto scatolare e tradizionalista dell’edificio, che porta a concepire le singole cappelle come unità di pianta quadrata, coronate da cupole a calotta con alte lanterne; le scelte retrospettive in fatto di ornato – in particolare l’uso sistematico di ordini di paraste corinzie scanalate, di ascendenza brunelleschiana, e l’abbondare di lemmi michelangioleschi, nei dettagli delle edicole timpanate o delle mostre delle finestre, nelle semicupole costolonate come a San Pietro in Vaticano –, insieme a inserti cortoneschi, come le cantorie estroflesse su colonne libere, o le ali concave aggiunte alla facciata; infine, il gusto tipicamente granducale per i rivestimenti di marmo policromo, su cui le superfici dipinte del modello, significativamente, insistono e che sono forse la caratteristica più distintiva del Seicento toscano. Sul piano prettamente planimetrico, l’aggiunta dei due cappelloni laterali, cupolati e aperti sulla navata unica da un arco a tutta altezza, esattamente come lo spazio absidale, avrebbe nei fatti generato uno spazio cruciforme e, perciò, tendenzialmente centralizzato, divergendo in modo sostanziale dall’edificio già in uso: una proposta forse memore delle prime ipotesti di ampliamento – già attribuite a Paolo Guidotti – che a inizio secolo si erano concentrate, con schemi paragonabili, sull’area presbiteriale.

La sola conseguenza tangibile di questa proposta – seppure con forme significativamente diverse – sarà l’edificazione entro il 1688 dei corpi laterali adibiti a spogliatoi; ma le idee di Silvani saranno impugnate a più riprese, e almeno fino agli anni della Restaurazione, dagli operai più ambiziosi, trovando però sempre la resistenza della maggioranza dei cavalieri stefaniani. In fin dei conti, è proprio dai conflitti ricorrenti all’interno dell’Ordine di Santo Stefano che si origina anche il progetto fissato dal modello ottocentesco, concepito dal funzionario delle Regie Fabbriche – e protagonista della stagione del neoclassicismo leopoldino – Pasquale Poccianti. Per l’appunto, il suo primo incarico era consistito in una valutazione di un altro progetto di rifacimento radicale, ovvero quello del pisano Alessandro Gherardesca, del 1840, abbandonato quando l’architetto del granduca avrebbe imposto, in risposta, la propria alternativa. Il modello al San Matteo – a oggi smantellato e in attesa di restauro, ma ancora ben leggibile in tutte le sue componenti – reca la data del 1855 e corrisponde dunque alla versione finale del progetto, elaborato tra 1852 e 1853 per sventare il rischio di un sostanziale ridimensionamento delle iniziative di ammodernamento (e del subentrare di un ennesimo progettista alternativo, questa volta il fiorentino Nicolò Matas), a conferma delle funzioni promozionali e dimostrative, piuttosto che progettuali, associabili a un tale oggetto.

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Pasquale Poccianti, Modello per Santo Stefano dei Cavalieri a Pisa, particolare della controfacciata con i nuovi vestiboli laterali, 1855. Pisa, Museo Nazionale di San Matteo
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Pasquale Poccianti, Modello per Santo Stefano dei Cavalieri a Pisa, dettaglio delle cupole dei vestiboli laterali, 1855. Pisa, Museo Nazionale di San Matteo
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Pasquale Poccianti, Modello per Santo Stefano dei Cavalieri a Pisa, dettaglio della volta dell’abside con lacunari e decorazioni a racemi d’acanto, 1855. Pisa, Museo Nazionale di San Matteo
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Pasquale Poccianti, Modello per Santo Stefano dei Cavalieri a Pisa, particolare della navata laterale con i nuovi altari trabeati, 1855. Pisa, Museo Nazionale di San Matteo
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Pasquale Poccianti, Modello per Santo Stefano dei Cavalieri a Pisa, dettaglio dei rilievi a panoplia, 1855. Pisa, Museo Nazionale di San Matteo

Pur nella muscolarità della trasformazione proposta per la chiesa, anche in questo progetto Poccianti, architetto sempre fedele a sé stesso, non nasconde le proprie preferenze per un’architettura ormai attardata e retrospettiva per la metà del secolo, che guarda alle esperienze europee di primo Ottocento, al più tardi, e lo conferma un «fiorentino autoctono e autonomo culturalmente», come è stato definito da Franco Borsi. Quindi, l’articolazione delle superfici della chiesa da lui ripensata fa leva sul contrasto esibito tra ampie superfici lisce, assertivamente sode, e brani in cui si concentra l’ornato chiaroscurale, come nella grande botte e nel catino dell’abside, intagliati da lacunari, ghirlande, festoni, o nelle ghiere a rilievi della controfacciata, sfruttando questa volta le potenzialità chiaroscurali del trattamento monocromo. Gli ordini (corinzio, per la navata e gli altari, e ionico nei due vestiboli e nella balconata dell’organo) sono preferibilmente di piedritti liberi, siano essi colonne o pilastri quadrangoli; le modanature orizzontali, minimali e poco rilevate, corrono ininterrotte fasciando il vano nella sua interezza e sottolineano il peso della muratura, al pari delle nicchie sospese o delle incassature isolate che ospitano rilievi figurativi; le finestre sono come d’abitudine di tipo termale, o semplicemente architravate e ornate solo da mensoloni lisci e parallelepipedi. Le stesse strategie formali sono adottate per le poche porzioni dell’esterno interessate dal progetto: il campanile – che su un basamento in mattoni e bugne lisce angolari monta una canonica successione di ordini di paraste, dando modo di includervi il prediletto tuscanico, concludendo la torre con un originale cupola a padiglione – e le facciatine delle navate, che riprendono anche il motivo della colonna libera esibita in angolo dall’alzato di don Giovanni (la questione del decoro di questi accessi laterali sarà infine risolta, negli anni trenta del Novecento, da Luigi Pera).

Per l’appunto, l’elemento di maggior novità del progetto di Poccianti consisteva nel recupero dei corpi laterali come navate – a loro volta completate da una botte, mentre per quella centrale era previsto un rifacimento e lacunari geometrici del soffitto piano – attraverso lo sfondamento dei muri e il posizionamento di colonne architravate, secondo uno schema basilicale all’antica: un’operazione effettivamente avviata, ma poi obliterata dopo la decisione del granduca Leopoldo II di interrompere i lavori di ristrutturazione, nel 1857. Soprattutto, i corpi laterali, come riconosciuto in letteratura, avrebbero reso manifesta la vocazione dell’edificio a fungere da ricettacolo delle memorie dell’Ordine, sottolineata iconograficamente nel modello dal ricorrere di rilievi a panoplie intercalati tra i finestroni, in controfacciata, e sulle pareti del campanile. Nella stessa articolazione spaziale – che per queste gallerie prevedeva anche dei vestiboli autonomi, sottolineati esternamente da cupolette squamate – si sarebbe cioè reso evidente come la chiesa pisana fosse ormai intesa, eminentemente, come luogo di celebrazione del glorioso passato dei cavalieri stefaniani: in un età di storicismi e progressiva musealizzazione del patrimonio architettonico europeo; ma, ironicamente, a ridosso della sua soppressione, che nel 1859 avrebbe messo fine a ogni velleità di ampiamento e accrescimento monumentale dell’edificio.

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