Nel 1919, in vista delle celebrazioni per i seicento anni dalla morte di Dante Alighieri (1321-1921), l’allora Soprintendente di Pisa, Pèleo Bacci, patrocinò alcuni importanti interventi di restauro nel Palazzo dell’Orologio. Come altri monumenti italiani ugualmente oggetto di attenzioni conservative in quegli anni, l’edificio si legava a filo diretto con la storia dantesca, inglobando nelle sue strutture seicentesche la Torre della Fame, ricordata dal poeta nel canto XXXIII dell’Inferno come luogo della tragica morte del conte pisano Ugolino della Gherardesca. Proprio in quello stesso anno, il Palazzo, di proprietà del conte Eugenio Finocchietti e da poco sottoposto a tutela da parte della Soprintendenza, fu venduto ad Alberto della Gherardesca, discendente dell’illustre politico duecentesco.
Assecondando una più generale tendenza al revival neo-medievale che permeava il contesto pisano d’inizio Novecento, Bacci, di comune accordo con il nuovo proprietario del bene (e in realtà ancor prima della finalizzazione dell’acquisto), si fece promotore di alcuni sondaggi esplorativi sulle murature esterne, che rivelarono, come rendicontò in seguito egli stesso a Finocchietti, «le tracce di due arconi con conci lavorati a dentelli al piano terreno della facciata e tracce di due polifore con colonnette in marmo e archetti lobati, a detti arconi sovrapposte». Si valutò quindi di intervenire per restituire al fabbricato il suo originario aspetto medievale, non solo recuperandone i superstiti lacerti ma addirittura procedendo all’esecuzione di nuove decorazioni in stile negli ambienti interni, spesso anche a discapito della conservazione delle emergenze pertinenti all’epoca medicea.
Sul corpo sinistro dell’edificio, oltre a rendere visibili i blocchi di verrucano di cui era composto l’antico tessuto murario, si decise di ricollocare le due quadrifore, i cui parziali resti erano emersi nel corso dei saggi. Dopo aver fatto eseguire alcuni disegni ricostruttivi dall’architetto Oreste Zocchi, Bacci si rivolse a Edoardo Marchionni, direttore del Regio Opificio delle Pietre Dure di Firenze, chiedendogli un supporto nell’operazione e l’invio di un tecnico per far trarre dei calchi dei frammenti rinvenuti, al fine di studiarne meglio le possibili integrazioni. Dopo la nomina di Pietro Capecchi, ci si rese tuttavia presto conto non solo dell’opportunità di lavorare direttamente sugli originali – elencati da Bacci in «due capitelli, due basi, due reggi archetti gotici da restaurare e da tenere per modelli nel reintegramento» – sistemati in due casse e spediti a Firenze (dove lo stesso soprintendente si recò per pianificare meglio l’intervento), ma anche dell’impossibilità di rimettere in piedi entrambe le polifore, dovendo ripiegare su una sola.
I marmi necessari alle integrazioni furono ordinati alla ditta fiorentina Sollazzini e la loro lavorazione si protrasse nei primi mesi del 1920. Tuttavia, già a gennaio Marchionni avvisava il soprintendente pisano dell’arrivo dei materiali: «le basi delle colonne sono fatte. I tre pennacchi lobati sono in lavorazione e due fusti di colonna sono abbozzati, il terzo quasi, ma non possiamo finirli fintanto che non avremo il fusto vecchio per vedere come è data l’ultima passata di scalpello ed intanto restaurarlo». Oltre che all’invio delle componenti mancanti per procedere alla realizzazione degli ultimi pezzi, Bacci veniva quindi sollecitato alla definitiva messa in prova della finestra, con l’esecuzione in loco degli eventuali aggiustamenti. I lavori si chiusero a maggio, quando i pezzi prodotti furono trasportati a Pisa, ma l’effettivo montaggio richiese altri mesi. Solo nell’agosto successivo il soprintendente poté avvisare Marchionni dell’avvenuta collocazione della quadrifora (che definiva «lavoro riuscitissimo e segno dei bravi artefici di codesto Regio Opificio e del suo sapiente direttore»), già annunciandone l’imminente, pubblico disvelamento. Ancora mancanti, i vetri, furono commissionati al pittore Ettore Giovannozzi, della ditta vetraria De Matteis di Firenze, mentre le annesse armature in ferro furono lavorate dal fabbro Salvatore Magherini. L’assemblaggio avvenne finalmente nel novembre 1920, ad opera di Napoleone Chini, titolare di una ditta familiare ampiamente attiva in area locale.
Fu però a questo punto che sorsero dei dissapori tra il proprietario Della Gherardesca, che si era assunto l’onere economico degli ultimi lavori richiedendo anche l’apposizione sulle nuove vetrate del proprio stemma, e Bacci: il conte si rifiutò di saldare il conto presentato da Chini, pressando al contempo la Soprintendenza affinché lo autorizzasse all’apertura di una finestra sulla parete destra del voltone di collegamento tra i due corpi di fabbrica, in simmetria con quella già esistente sul lato sinistro. L’ostinato silenzio del soprintendente, evidentemente piccato per l’affaire Chini, portò all’innesco di un contenzioso, che esitò nell’accusa a Bacci di aver provocato, con la reintegrazione della quadrifora, «una intrusione anacronistica di elementi gotici in una fabbrica di ormai indelebile carattere cinquecentesco» (come si legge nella bozza dell’esposto preparata per il conte dall’amico Luigi Dami, segretario di redazione della rivista Dedalo, diretta da Ugo Ojetti) e di non aver concordato le spese.
Dopo un lungo braccio di ferro, che vide coinvolte a sostegno di Della Gherardesca figure influenti come Ojetti, appunto, e il deputato Nello Toscanelli, fu Bacci a soccombere, costretto da ordini superiori a concedere l’autorizzazione per l’apertura della finestra sul voltone (in realtà poi mai realizzata), e il Ministero a pagare il conto di Chini il 24 ottobre 1924.
La quadrifora, tuttora conservata, sostituendosi alla preesistente finestra andò di fatto a rompere la continuità visiva e formale della facciata del Palazzo dell’Orologio. La sua presenza, tuttavia, è ormai storicizzata e a nulla valse il tentativo della Scuola Normale Superiore, dopo l’acquisto dell’edificio e l’avvio del suo integrale restauro negli anni Settanta, di ottenere dalla Soprintendenza il nulla osta al ristabilimento della precedente apertura cinquecentesca.
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