La decorazione ad affresco sulla facciata del Palazzo dell’Orologio fu realizzata tra il 1607 e il 1609, probabilmente su ideazione di Ridolfo Sirigatti, allora conservatore dei beni dell’Ordine di Santo Stefano. Fu infatti Sirigatti a ordinare nel 1607 il «modello della pittura» del palazzo all’intagliatore Bartolomeo Atticciati, col fine di indirizzare il lavoro dei pittori. Stando alla testimonianza di Filippo Baldinucci il programma iconografico comprendeva «simboliche figure di Virtù o d’Arti Liberali e Meccaniche, con diversi paesi e prospettive». L’affermazione può essere contestualizzata grazie a un affresco realizzato da Baldassarre Franceschini, detto il Volterrano, nella Villa della Petraia (Castello, Firenze) tra il 1636 e il 1646: la scena con Il gran principe Cosimo de’ Medici riceve a Pisa i vincitori della battaglia di Bona (1607), ambientata in Piazza dei Cavalieri. Sullo sfondo dell’affresco è possibile ammirare una riproduzione della decorazione dell’Orologio, che nel giro di un secolo e mezzo andò per la maggior parte perduta. La partizione decorativa della facciata principale, organizzata su quattro fasce, con figure allegoriche che si alternavano a paesaggi e a stemmi mediceo-stefaniani, è ancora più apprezzabile nell’incisione che Georg Martin Preisler trasse dal dipinto del Volterrano alla metà del XVIII secolo.
Lo schema, come è parzialmente visibile dal dipinto di Volterrano, doveva ripetersi sui fianchi laterali. Sul voltone, oggi meglio conservato, è raffigurata invece una griglia geometrica che racchiude sui lati lunghi stemmi mediceo-stefaniani, trofei guerreschi e paesaggi, mentre su quelli corti, come nel campo centrale, figure allegoriche entro partiture architettoniche contornate da grottesche.
Per quanto riguarda gli autori della decorazione, le fonti hanno per lungo tempo tramandato i nomi di Bernardino Poccetti e Giovanni Stefano Maruscelli, quest’ultimo esplicitamente menzionato da Filippo Baldinucci. È invece probabile che il primo fosse chiamato in causa per la sua nota attività di frescante di facciate e la particolare dimestichezza con il genere della grottesca. Solo a partire dal 1821 Alessandro Da Morrona ha affiancato al nome di Maruscelli quello di Filippo Paladini: più tardi è emersa anche la menzione del figlio di quest’ultimo, Lorenzo (probabilmente sulla base di documenti rintracciati, ma non citati).
Grazie al rinvenimento dei pagamenti intestati ai pittori da parte di Augusto Bellini Pietri è stato possibile appurare la successione cronologica dei lavori: venne ingaggiato dapprima Filippo e alla sua morte (1608) Lorenzo, attivo appena due settimane, insieme a Giovanni Stefano Maruscelli, al quale si può ascrivere con certezza la volta dell’Arco dei Gualandi. I documenti hanno rivelato anche la consistenza del lavoro, quantificata in braccia (misura lineare che corrispondeva a quasi 60 centimetri): sulle tre facciate principali 1106 braccia furono realizzate da Filippo, 414 da Lorenzo in collaborazione con Maruscelli e altre 282 solo da quest’ultimo; sul voltone Maruscelli eseguì 428 ¾ braccia di affresco. Nel 1979 Dino Frosini ha rinvenuto un resoconto dei lavori svolti dal muratore Paolo Antonio da Lucca, che aveva collaborato sia con Filippo Paladini che con Maruscelli. Nel foglio da lui dettato sono indicate le figure allegoriche eseguite dall’uno e dall’altro pittore durante il periodo in cui il muratore fu attivo nel palazzo e vengono inoltre fornite sommarie indicazioni – non sempre comprensibili – sulla loro collocazione: insieme a diversi paesaggi in cui era particolarmente versato, Paladini eseguì una Gloria, l’Intelligenza e la Pace, mentre Maruscelli – anch’egli autore di alcuni scorci paesistici – eseguì l’Abbondanza, la Terra e due Angeli.
Lo stato conservativo degli affreschi, deplorato dalla critica fin dai primi del Novecento, non permette una chiara identificazione di tutte le figure, nonostante lo stacco, il restauro e la ricollocazione avvenuti tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta. Ad ogni modo, durante queste operazioni sono state restituite alla pubblica visione diverse allegorie e alcuni frammenti della fascia decorativa – con festoni, trofei, mascheroni e stemmi – che costituiva l’impaginazione dei riquadri principali e che era stata totalmente omessa dalla testimonianza visiva del Volterrano.
Un recente studio di Lucia Tongiorgi Tomasi ha permesso di chiarire l’iconografia di alcune allegorie tramite il confronto con la celebre Iconologia di Cesare Ripa, fornendo al contempo alcune proposte attributive.
In generale il programma iconografico, presumibilmente ideato da Sirigatti, pur attingendo al tradizionale repertorio iconografico cinque-seicentesco, intende esaltare i benefici effetti del governo mediceo e al contempo, tramite il ricorso ai trofei bellici e agli stemmi, l’azione dell’Ordine di Santo Stefano. Se nei trofei Tongiorgi Tomasi ha ravvisato qualche affinità con i bassorilievi dei battenti interni della porta bronzea del Duomo pisano, eseguita negli stessi anni, nella decorazione della facciata è possibile rintracciare anche un’eco delle ricche figurazioni cinquecentesche del cantiere vasariano di Palazzo Vecchio: una conferma dell’impatto che quel grandioso cantiere, anche a distanza di decenni, ebbe sugli artisti impegnati in altre imprese granducali. Come notato da Franco Paliaga, lo stile delle figurazioni del voltone è invece in debito con quello di Andrea Boscoli, che fu maestro di Maruscelli.
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