Tosini, Santa Caterina

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Michele Tosini

Santa Caterina

Allestita sulla parete finestrata della Sala degli Stemmi, al terzo piano del Palazzo della Carovana, accanto alla Madonna con Bambino e altri santi di Giovambattista Naldini, la Santa Caterina d’Alessandria è un dipinto a olio su tavola di piccole dimensioni (73×58 cm) del pittore manierista fiorentino Michele Tosini (1503-1577).

Documentata dagli anni ottanta dell’Ottocento negli inventari degli Uffizi (inv. 1890-5874), dove già è riferita a Tosini, l’opera era conservata in Galleria e quindi nel Corridoio vasariano (nel tratto corrispondente al Lungarno degli Archibusieri), prima di trovare definitiva collocazione nell’attuale sede pisana il 26 aprile 1929. La richiesta per il deposito permanente di «otto, dieci quadri da magazzino del Cinque-Seicento» fu sollevata dal docente della Scuola Normale Francesco Arnaldi all’indomani degli interventi di restauro della sala e si concretizzò nella consegna di «quattro quadri e tre strisce d’arazzo» dalle collezioni fiorentine: opere di artisti della Maniera toscana in linea con il riassetto neo-cinquecentesco del palazzo caldeggiato da Giovanni Gentile. Da questo punto di vista, assai approprio risultava il prestito di ben due dipinti (oltre alla Santa Caterina, anche una Sacra Famiglia) di Tosini, che era stato al servizio di Cosimo I de’ Medici e aveva collaborato ripetutamente con Giorgio Vasari, il quale non solo era suo intimo amico, ma anche nell’edizione Giuntina (1568) delle Vite avrebbe fornito sul pittore le più antiche e attendibili notizie.

Dopo quasi tre secoli di silenzio, la discreta attenzione critica novecentesca (tra cui si annoverano Adolfo Venturi, Carlo Gamba, Bernard Berenson, Walter Paatz, Sydney Freedberg, Heidi J. Hornik), sostenuta da scoperte archivistiche e studi monografici, ha portato finalmente alla redazione di un catalogo tosiniano piuttosto esteso, che sfiora le 150 opere, nonostante l’irriducibile oscillazione di certe attribuzioni. Non privo di un certo favore da parte mercato, l’artista poteva così essere riscoperto come uno dei rappresentanti più caratteristici e dotati della Maniera fiorentina: esemplare anello di congiunzione tra l’esperienza del primo classicismo fiorentino (Ghirlandaio, Andrea del Sarto, Fra Bartolomeo) e il più avanzato linguaggio manierista (Vasari, Salviati, Bronzino).

Noto anche come Michele di Ridolfo del Ghirlandaio, Tosini era stato legato quasi per quarant’anni al rinomato pittore fiorentino, nella cui bottega entrò verso il 1516, ereditandone alla fine la direzione nel 1561. Né è un caso che Vasari inserisca le annotazioni sull’amico nel capitolo dedicato a Davide, Ridolfo e Benedetto Ghirlandaio, legittimandone la discendenza dall’illustre dinastia di artisti. Nell’arco di oltre quarant’anni di prestigiosi incarichi pubblici e privati a fianco del maestro, Michele divenne uno dei riferimenti principali della committenza artistica fiorentina di medio Cinquecento, sia civile che religiosa, dimostrando un’intelligente capacità nel rinnovare con cautela tipologie iconografiche canonizzate dai suoi contemporanei. Coinvolto a metà degli anni sessanta nei principali cantieri della Firenze medicea (il restauro vasariano di Palazzo Vecchio; gli apparati per i funerali di Michelangelo; quelli per le nozze di Francesco I e Giovanna d’Austria), entrò in contatto con le botteghe di Vasari e Bronzino, che finirono per influenzare il suo stile in una direzione tardo-manierista. Soprattutto nell’ultima fase della sua carriera, tra gli anni sessanta e settanta del Cinquecento, Michele privilegiò temi di forte intonazione biblica, rimarcando il ruolo esegetico delle immagini nei confronti dei testi sacri. Frequenti in questo periodo furono le variazioni sul soggetto iconografico della Sacra Famiglia e su busti-ritratto femminili biblici, allegorici e profani.

L’opera oggi in Sala degli Stemmi appartiene a questa tipologia e tradisce tanto generiche ingerenze manieriste, quando nello specifico l’importanza per Michele del modello vasariano. Immediatamente riconoscibile dall’attributo della ruota, Caterina era, assieme a Maria Maddalena ed Elena, una delle sante riprodotte con maggior frequenza a Firenze, solitamente su tavole lignee di piccole dimensioni (ca. 70 x 55 cm) finalizzate alla devozione privata o per le aree della casa destinate agli ospiti. Queste rappresentazioni fungevano infatti da veicolo visivo per celebrare la propria fortuna e religiosità nell’osservanza delle nuove direttive postridentine.

Il tipo femminile adottato da Tosini per la santa è caratterizzato da profili eleganti, collo affusolato, labbra sottili e graziosamente atteggiate, tratto naso-sopraccigliare continuo e dritto, cavità orbitali accentuate, acconciature e vesti sfarzose e gioielli elaborati e deriva chiaramente da cifre stilistiche vasariane, verosimilmente assimilate durante la collaborazione nel cantiere di Palazzo Vecchio. Si tratta di elementi ricorrenti nelle opere tosiniane: già evidenti nella Leda e nella Lucrezia della Galleria Borghese e che si sarebbero accentuati nella produzione tarda degli anni settanta. I colori non sono più quelli puri e opachi quattrocenteschi ma acquistano la sensuosa lucidità e i vibranti cangiantismi manieristi che valorizzano la luminosità dell’incarnato stagliato su fondo scuro. Grande attenzione è posta sulle mani dalle lunghe dita, collocate nell’immediato primo piano e descritte con cura meticolosa. La stessa enfasi sulla gestualità è riscontrabile negli altri due ritratti di Santa Caterina attribuiti a Michele (National Trust, Tatton Park; e un secondo di ubicazione ignota, documentato nel mercato antiquario degli anni Ottanta), differenti tuttavia per impaginazione e dettagli decorativi.

Copyright:
Foto di Giandonato Tartarelli. ©️ Scuola Normale Superiore
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Michele Tosini, Santa Caterina d’Alessandria, anni sessanta-settanta del XVI secolo. Pisa, Palazzo della Carovana, Sala degli Stemmi

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