Sito al primo piano del Palazzo dei Dodici, l’ambiente è il più importante dell’edificio (e uno dei più prestigiosi dell’intera Piazza dei Cavalieri) per ricchezza decorativa e grandiosità. Con la sua elevata altezza, il salone occupa interamente il primo piano e parte dell’attico soprastante, venendo così illuminato dalle tre grandi finestre con balaustra, di cui quella centrale balconata, e dalle quattro aperture più piccole poste sulla sommità delle pareti ad angolo che si affacciano sulla piazza e su Via San Frediano. Questo spazio ha sempre avuto un ruolo di rappresentanza per le istituzioni che vi si sono avvicendate nel corso dei secoli, prima come sala di udienza per i Priori e in seguito per il tribunale dei Cavalieri di Santo Stefano.
La decorazione dell’ambiente tuttora visibile iniziò in concomitanza con la fine dei lavori in facciata, quando i Priori commissionarono – forse a Bartolomeo Atticciati – l’esecuzione del soffitto ligneo intagliato e dorato, articolato intorno a un originario gruppo di cinque tele del pittore senese Ventura Salimbeni. Fino al passaggio di proprietà del palazzo all’Ordine di Santo Stefano (1691), il riquadro centrale del soffitto era occupato da un’Allegoria di Pisa, ora conservata nel Museo Nazionale di Palazzo Reale. La città, rappresentata da una nobildonna intenta a nutrire due bambini, allude alla Caritas cristiana e ha sullo sfondo dei simboli pisani per eccellenza: la Cattedrale e il suo campanile.
Il ciclo pittorico era completato da quattro tele angolari – tuttora in situ – raffiguranti le virtù cardinali assise su nuvole e recanti ciascuna i propri attributi distintivi: la Temperanza mesce acqua calda e fredda in un bacile, la Prudenza volge lo sguardo a uno specchio e tiene un serpente nella mano destra, la Giustizia reca, invece, una spada e una bilancia, mentre la Fortezza, abbigliata militarmente, tiene accanto a sé un fusto di colonna spezzato.
La scelta di questa peculiare rappresentazione di Pisa – non episodica né tantomeno semplice adozione di una vecchia iconografia – dimostrava la volontà dei Priori di allinearsi a un’immagine ‘restaurata’ della città la quale, da tempo assoggetta al potere mediceo, dopo un lungo periodo di decadenza era risorta proprio grazie al governo granducale, espresso nella persona di Ferdinando I, la cui statua in atto di risollevare una ‘Pisa-Caritas’ era stata eretta nel 1595 dallo scultore Pietro Francavilla in Piazza Carrara. Il buon governo ferdinandeo, sotto il quale si stavano compiendo i lavori di ammodernamento e decorazione del palazzo, era inoltre assicurato dalle virtù cardinali raffigurate negli angoli del soffitto.
Le tele furono realizzate durante uno dei soggiorni pisani di Salimbeni: al 1602 si datano le Virtù, al 1603 il dipinto centrale. Questo, come già accennato, fu sostituito nel 1692 dalla tela, attualmente al centro del soffitto, raffigurante la Gloria di santo Stefano di Giovanni Camillo Gabrielli. L’opera fu commissionata dai Cavalieri che, contestualmente, avevano acquistato dai Priori le altre quattro tele di Salimbeni pagandole 100 scudi. Il dipinto di Gabrielli mostra il papa seduto e benedicente, al quale è reso omaggio dalla città di Pisa (o dalla Religione), raffigurata inginocchiata e vestita dell’abito di gran maestro dell’Ordine di Santo Stefano con spada e scudo. Ai suoi piedi, il turbante adorno della mezzaluna ricorda l’originaria missione dei cavalieri stefanei in difesa della cristianità dagli infedeli. Per questa composizione il pittore prese a modello lo stendardo dipinto da Pier Dandini e riprodotto in un disegno di Domenico Tempesti, conservato alla Morgan Library di New York, il quale mostra l’interno della chiesa di Santo Stefano, nel 1683 durante le celebrazioni per la traslazione delle reliquie del santo.
Fino al 1680, le pareti della sala erano ricoperte da parati in cuoio che i Priori decisero di sostituire con una decorazione ad affresco, a causa del loro logoramento. In due deliberazioni dell’aprile 1680 incaricarono l’operario della Primiziale pisana Marco Antonio Venerosi – sostituito dopo la sua morte in ottobre da Jacopo Antonio Lupi – e il cavaliere Giovanni Battista Pandolfini di sopraintendere e dirigere i lavori.
Sulla scorta dell’ipotetica attribuzione avanzata da Alessandro Da Morrona a fine Settecento, la decorazione è stata per lungo tempo ritenuta opera dei fratelli Giuseppe e Francesco Melani. A studi successivi si deve l’individuazione in un manoscritto della Biblioteca Universitaria di Pisa dei nomi degli autori degli affreschi. Nelle Memorie degli uomini e delle cose notevoli nella città di Pisa troviamo: «Lippi pittore fiorentino cominciò le pitture della sala della Cancelleria dei Cavalieri, e morì. / Giusti pittore fiorentino terminò le pitture lasciate imperfette dal Lippi nella Cancelleria dei Cavalieri per la morte seguitali». L’incarico di decorare la sala fu dunque assegnato a Pietro Paolo Lippi, noto pittore quadraturista, autore di sfondati architettonici e scenografie teatrali. La fama ottenuta in questo campo e l’attività già svolta per un’istituzione comunale (a Prato) possono spiegare la sua chiamata nella Sala dell’Udienza della città di Pisa. La notizia dell’interruzione dei lavori a causa della sua morte è comprovata dalla deliberazione del 26 novembre 1682 con la quale si stanziavano 100 scudi per portare a termine le pitture incompiute. Questo avvenne nel 1683 grazie a un collaboratore di Lippi, Antonio Giusti, artista attivo per la corte granducale come specialista di figure, animali e fiori dipinti in fregi o all’interno di quinte architettoniche e paesistiche.
Il ciclo pittorico del Palazzo dei Dodici è ad oggi l’opera più ampia e meglio conservata dei due pittori, rappresentando una perfetta sintesi delle specializzazioni di entrambi. Al pennello di Lippi possono assegnarsi con certezza le architetture dipinte che sfondano le quattro pareti dell’ambiente, simulando un vasto loggiato, mentre le figure e gli elementi decorativi che popolano le architetture furono aggiunti da Giusti. Benché il nome di quest’ultimo non sia menzionato nei documenti d’archivio riguardanti la decorazione, ma solo nel manoscritto in precedenza ricordato, l’attribuzione è ampiamente condivisa in virtù del suo stretto rapporto con Lippi e della sua presenza a Pisa nel 1683 in occasione della festa per la traslazione delle reliquie di santo Stefano per la quale collaborò agli apparati decorativi.
Con la loro esuberanza ornamentale, gli affreschi celebrano la gloria pisana sotto il governo fiorentino, il quale è scenograficamente richiamato nella parete d’ingresso dal grande stemma dei Medici sostenuto da putti sovrastato dello scettro e dalla corona granducale con iscritto al suo interno il nome di Cosimo III. La macchina scenografica, comprendente anche i trofei d’armi posti sopra il timpano spezzato della porta, è esplicitamente ispirata all’esuberante invenzione barocca di Pietro da Cortona per la volta della Sala di Marte in Palazzo Pitti. Ai lati della porta sono inoltre poste le statue fittizie di due putti con le corone d’alloro e d’ulivo, recanti ciascuno gli stemmi con le croci a chiave pomata della città. Una simile articolazione si ritrova sulla parete di fondo, dove altri putti coronano lo stemma stefaniano – in precedenza quello di Pisa – associato a una panoplia d’armi e alle statue della Vittoria e della Fama disposte ai lati su balaustre.
Un preciso riferimento alle imprese navali della città è nella parete maggiore dove, oltre il vasto loggiato, sono raffigurate in lontananza alcune galere pisane in mare. Quattro sculture sono collocate negli intercolunni e nelle nicchie del portico e tra esse è possibile riconoscere quella del dio del mare Nettuno. In primissimo piano sono invece due divinità fluviali identificate come l’Arno e il Serchio, di cui quella di destra sembra voler rendere omaggio nella posa alla scultura del Giorno di Michelangelo per la tomba di Giuliano de’ Medici in San Lorenzo a Firenze.
Altre sculture sono dipinte tra le quinte architettoniche, ma il loro significato allegorico rimane in diversi casi generico o poco chiaro, come ad esempio nelle raffigurazioni della parete con le finestre, dove il giovane armato di spada in atto di sollevare lo scudo ornato di una testa leonina e il vecchio barbuto, coronato di foglie e con in mano uno scettro e un grande libro aperto, potrebbero alludere al valore militare e a quello sapienziale.
Una ricca decorazione monocroma costituita da putti, telamoni, cariatidi, busti all’antica e medaglioni orna gli strombi e le cornici delle finestre e il fregio superiore delle pareti. L’intonazione cromatica generale, tesa a fingere materiali architettonici quali marmo e stucco, è ravvivata dal colore delle ghirlande e dei vasi di fiori posizionati sulle balaustre e sulle mensole e dagli inserti esotici costituiti dal pappagallo e dalla scimmietta con i due bambini, uniche presenze viventi all’interno della decorazione.
In seguito al passaggio di proprietà ai Cavalieri, sancito dal motu proprio di Cosimo III del 1689 e ribadito nel 1691, l’Ordine fece sostituire il proprio stemma a quello di Pisa sulla parete di fondo alla sala e nel soffitto ligneo. Probabilmente nello stesso momento furono aggiunte le due iscrizioni a caratteri d’oro, poste all’estremità della tela centrale di Gabrielli, alla quale si riferiscono e che recitano: «IN DEVOTIONIS ET» / «MAIESTATIS MEMORIAM».
I restauri del 1987 hanno accertato l’esecuzione ad affresco delle pitture, talvolta ritenute condotte a tempera su muro. L’equivoco era imputabile alle pesanti ridipinture a secco dei restauri ottocenteschi che, una volta eliminate, hanno restituito freschezza e qualità alle stesure originali. La pulitura non ha invece coinvolto le parti a tempera che testimoniano il passaggio di proprietà del palazzo e soprattutto quelle imputabili probabilmente alla mano del Giusti, che interessavano gli animali, alcune figure e i vasi di fiori. La pulitura delle superfici pittoriche ha messo in luce l’uso delle incisioni sull’intonaco fresco per l’impianto architettonico e alcuni pentimenti avvenuti e corretti in corso d’opera.
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