L’altare venne commissionato da Cosimo III de’ Medici, ispirato dalla munificenza dimostrata dai suoi predecessori nei confronti della chiesa conventuale. Si tratta di una pregevole opera barocca in marmi policromi, porfido e bronzo eseguita tra il 1700 e il 1709 su progetto di Giovanni Battista Foggini. L’altare racchiude al suo interno due reliquie di santo Stefano, papa e martire del terzo secolo: una parte del corpo – faticosamente ottenute nel 1682 dalle autorità civili e religiose di Trani grazie a un breve di Innocenzo XI Odescalchi e accompagnate in chiesa da una fastosa processione il 25 aprile 1683 – e la cattedra del santo, donata a Cosimo da Innocenzo XII Pignatelli nel 1700.
L’imponente struttura è composta da un sarcofago in porfido che conserva le ossa di Stefano, visibili tramite una finestrella, e da un alto trono bronzeo, che funge da custodia alla cattedra su cui il santo era assiso poco prima del martirio, collocato sopra il sarcofago. Sull’elegante schienale con volute è raffigurata a rilievo la Decollazione del santo.
Sopra questo doppio ‘reliquiario’ si erge la figura marmorea del papa, sostenuta da nuvole e putti e circondata dai raggi in bronzo dorato della Gloria. Stefano sorregge con la mano sinistra la croce dell’ordine, mentre la destra è alzata in segno di benedizione. Sulle volute del sarcofago e in adorazione del santo poggiano altre due figure in marmo di Carrara: quella di sinistra reca una bandiera ed è stata identificata dalla critica come rappresentazione della Vittoria; in quella di destra, con la spada e lo scudo, è stata ravvisata l’allegoria dell’Ordine di Santo Stefano. Entrambe le figure, però, sono definite nei documenti coevi come semplici angeli: hanno infatti sembianze maschili, sebbene non siano alate.
La struttura architettonica, caratterizzata da doppie colonne scanalate, è dello stesso porfido bruno rossastro con macchie bianche che compone il sarcofago. Nella zona del basamento sono inserite lastre di diaspro e calcedonio con profili in bronzo dorato. Le cornici, i capitelli e le altre finiture sono eseguite sempre in bronzo dorato. Gli unici elementi in materiale meno pregiato sono i trofei del frontone e i quattro vasi a fiamma sopra le colonne, eseguiti in legno e poi dipinti.
La chiave di lettura dell’intera immagine è offerta dall’iscrizione sul paliotto che recita: «NOMINI MEO ADSCRIBATVR VICTORIA» in riferimento al carattere militare dell’ordine.
L’altare è il frutto di una storia progettuale lunga quasi quarant’anni, che ha chiamato in causa artisti del calibro di Gian Lorenzo Bernini, Pietro da Cortona, Ciro Ferri, Pier Francesco Silvani e appunto Foggini, che lavorò anche sulla scorta delle idee progettuali di Silvani. Oltre a questioni di ordine economico e di opportunità, i diversi progettisti dovettero far fronte al variare in itinere dello status dell’altare, divenuto progressivamente un reliquario. Fu proprio il dono della cattedra, ricevuto a Roma da Cosimo all’alba del nuovo secolo, a dare nuovo sprone al progetto, interrottosi bruscamente dopo la morte di Silvani (1685).
I lavori si concentrarono tra il 1703 e il 1707 e furono interamente sovrintesi da Foggini, che dal 1694 ricopriva ufficialmente il ruolo di ‘architetto primario’ del granduca. Su disegno dell’artista fu realizzato un modello in legno e cera (non più rintracciato). Di ubicazione attuale ignota sono invece i modellini in terracotta delle figure.
L’Ordine si sobbarcò il costo del metallo e il pagamento delle maestranze per un totale di 19.000 scudi, mentre il granduca fece personale dono dei marmi – porfido, diaspro e calcedonio – e delle dorature, per un valore di altri 16.000 scudi. Una delle colonne venne ‘sottratta’ all’altare maggiore della cattedrale pisana, che in cambio ne ricevette un’altra composta di due pezzi, ma appositamente dotata di un ricco capitello intagliato.
L’ammontare totale dei costi raggiunse i 35.620 scudi proprio per la preziosità nel manufatto: come sottolineato da Klaus Lankheit, l’utilizzo del porfido assunse la valenza di una vera e propria offerta a Dio, tanto più che, forse anche in chiave simbolica, la sua faticosa lavorazione fu affidata ad alcuni credenti musulmani, che l’ordine teneva prigionieri, ed ebbe luogo presso l’Arsenale pisano. Riccardo Spinelli rimanda, su base documentaria, al ruolo svolto in queste operazioni di intaglio dello scalpellino Piero Corsi.
Per quanto riguarda l’apporto operativo di Foggini, la critica ha sottolineato come sia difficile che, a questa altezza cronologica, egli avesse preso parte direttamente alla lavorazione delle statue marmoree. Questa supposizione è stata più tardi confermata da alcuni riscontri archivistici, che hanno dimostrato un ampio coinvolgimento dello scultore carrarese Andrea Vaccà.
Relativamente al progetto generale, Foggini dovette tenere a mente il prototipo della Cathedra Petri, progettata da Bernini per la Basilica di San Pietro. È un’evocazione, palesata dallo schienale ricurvo contenente un rilievo figurato, che rivela le radici romane della formazione dell’artista. Per la figura del boia nel rilievo egli guarda invece a un altro protagonista della Roma barocca, il bolognese Alessandro Algardi, autore del gruppo marmoreo con la Decollazione di san Paolo per l’altare maggiore della chiesa dedicata al santo a Bologna (dotato anch’esso di un rilievo, che però mostra il momento successivo al martirio). L’altare di Santo Stefano conferma dunque l’intuizione di Cosimo III sull’opportunità di aprire un’accademia fiorentina a Roma, perché gli artisti della sua corte si aggiornassero sull’arte della Città Eterna.
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