«Breve pertugio dentro da la Muda / la qual per me ha’l titol de la fame, / e che conviene ancor ch’altrui si chiuda» [Inf. XXXIII, 22-24]. La storia di una struttura comune, di modeste dimensioni, si trasforma in mito imperituro quando intreccia la tragica vicenda di Ugolino della Gherardesca, immortalata da Dante Alighieri nella sua Divina commedia. L’imprigionamento del conte nella Torre della Fame avvenne tra il luglio (o l’agosto) del 1288 e il marzo dell’anno successivo, a seguito di una cruenta battaglia di potere che vide Ugolino, allora Capitano del popolo, deposto da una congiura delle maggiori famiglie ghibelline guidate dall’Arcivescovo di Pisa Ruggieri degli Ubaldini. In un locale soprelevato della struttura (come si evince da Inf. XXXIII, 46-47: «e io senti’ chiavar l’uscio di sotto / a l’orribile torre»), le giornate scandite dal variare della luce appena filtrata da un pertugio (il «breve forame» dantesco), si consumò una delle più memorabili tragedie umane e assieme politiche del Medioevo europeo: la morte per inedia del conte (da qui la torre «ha’l titol de la fame»), assieme ai suoi due figli e nipoti.
Il termine ‘muda’ parrebbe fare capo alla sola tradizione dantesca: non è stato infatti rinvenuto sinora alcun documento che confermi la circolazione di tale epiteto in ambito comunale; più appropriata allora la dicitura ‘torre dei Gualandi’: tra le attestazioni di data più alta sono infatti quelle duecentesche relative al pagamento di un canone d’affitto di 10 lire in denari pisani che il Comune erogò proprio a un procuratore di tale famiglia. Anche le fonti sulla prima destinazione d’uso della struttura fanno capo, nuovamente, alla tradizione dei commenti alla Commedia. Dall’Ottocento, la dantistica sembra concorde nell’accettare l’ipotesi formulata (con cautela) da Francesco da Buti, un commentatore pisano del XIV secolo, secondo il quale la ‘torre della muda’ «forse […] così era chiamata perché vi si tenessono l’aquile del Comune a mudare». Se è certo che le aquile partecipassero effettivamente dei paramenti simbolici di Pisa (le cronache riportano il loro impiego in battaglia e nelle più importanti cerimonie cittadine), una lacuna documentaria finora non colmata non consente di sostenere con certezza che esse fossero tenute a ‘mudare’ (cioè fare la muta delle penne) proprio nella torre. Una quota notevole della tradizione antica dei commenti interpreta in effetti il lemma ‘muda’ in forma puramente metaforica: spazio stretto e angusto in cui gli uomini venivano a scontare le loro pene, macerandosi nel corpo.
Se non è dunque sicura la destinazione d’uso originaria, è tuttavia molto probabile che prima dell’imprigionamento di Ugolino la struttura espletasse una funzione differente e fosse stata convertita in «doloroso carcere» (Inf. XXXIII, 56) allo scopo di ospitare il Gherardesca. Un documento antico e abbastanza affidabile come i Fragmenta segnala infatti uno iato di venti giorni in cui questi e la sua famiglia furono trattenuti nel vicino Palazzo degli Anziani o Palazzo del Popolo in attesa di lavori di adeguamento: «presi in del Palasso del Populo più di XX dì, in fine che fu acconcia la pregione della Torre de i Gualandi da sette vie». Prigione rimase tuttavia anche dopo la morte del conte: il verso dantesco, sibillino e di lettura non univoca, secondo cui nella torre «conviene ancor ch’altrui si chiuda» potrebbe alludere proprio a questo. Del carcere «ad septem vias, prope domum Anthianorum» se ne deliberò in effetti la rimozione solo nel febbraio del 1318, a seguito di non più tollerabili condizioni strutturali. Da questo momento la storia della torre si lega indissolubilmente al destino del palazzo alla sua destra, prima sede del Capitano del Popolo di Pisa (1327) e poi, con l’instaurazione del dominio fiorentino (1406), del Capitano di custodia e balia e dei Commissari.
Il dominio fiorentino fu anche responsabile del disfacimento di molte strutture pubbliche, destino a cui non scampò la Torre della Fame. In questi anni, le uniche attestazioni ad essa relative si ricavano ancora una volta dall’interesse coltivato dagli studi danteschi: nelle sue Annotazioni nel Dante (datate tra il 1527 e il 1528) il letterato veneto Trifone Gabriel rileva come all’epoca la struttura risultasse «poco men che roinata». Albergo di fortuna per operai e poi cava per materiali di recupero durante gli anni del cantiere vasariano (1562-1567), alla fine degli interventi di trasformazione della piazza, la torre risulterà completamente smembrata. E chissà allora che il Conte Ugolino (opera perduta del musicista Vincenzo Galilei, padre del più noto fisico), composta probabilmente a Pisa proprio alla fine del XVI secolo non possa essere interpretata anche come il canto del cigno di uno dei luoghi simbolo della città, prima del suo completo inabissamento. Lo spettro medievale e repubblicano della storia pisana, infatti, assieme alla tragica fama dantesca renderanno la presenza dell’edificio politicamente e ideologicamente non più funzionale alle esigenze del regime mediceo. Sarà il granduca Ferdinando I de’ Medici tra il 1605 e il 1608 a incaricarsi di cancellarne ogni vestigia, facendola inglobare nel nuovo Palazzo dell’Orologio con un ordine perentorio: «levatemi dinanzi questa memoria infame di questa Torre, che è veramente una memoria infame».
Dopo due secoli di oblio, evoluzioni nel gusto letterario e una nuova sensibilità politica riporteranno infine la Torre della Fame (o il suo spettro) al centro degli itinerari del pubblico europeo in visita nella città tra tardo Settecento e prima metà dell’Ottocento. Ne nascerà un grande gioco di società votato alla riscoperta della sua collocazione originaria: gli epistolari, i diari privati e le relazioni di viaggio dei maggiori intellettuali europei del XVIII e XIX secolo si infittiscono di riferimenti, allusioni, accenni di indagine e formulazione di ipotesi più o meno credibili sull’antica collocazione della torre a partire dalla raccolta di voci locali o dall’interpretazione di muriccioli e ruderi sparsi per la città. È sull’onda lunga di tale rinnovato interesse che Peleo Bacci, soprintendente alle Belle Arti, dopo alcune esitazioni, individuerà correttamente il sito nei primi anni del Novecento. La storia della sua riscoperta culminerà tuttavia solo con l’ultima campagna di ristrutturazione finanziata dalla Scuola Normale Superiore sul finire degli anni Settanta, che permise di recuperare e restituire al pubblico l’antica struttura. Ma al di là della pietra, il suo mito riverbera in centinaia di disegni, incisioni, opere d’arte, fondali scenografici, film e fumetti; popola il testo di tragedie, romanzi e poesie stratificatesi nell’arco di secoli.
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