Come sede cultuale di un Ordine religioso-militare, la chiesa di Santo Stefano dei Cavalieri ricoprì sempre un ruolo, oltre che simbolico, intrinsecamente politico, legato sia alla celebrazione del casato mediceo, fondatore dell’Ordine stesso, sia all’imperituro ricordo dell’impegno profuso dai Cavalieri per la difesa della religione cristiana. Per queste ragioni l’interno dell’edificio si caratterizzò fin dall’inizio – e si distingue tuttora – per un aspetto essenziale e a tratti addirittura austero, privo di orpelli e sovrabbondanti decorazioni, ma focalizzato su alcuni elementi cardine: il soffitto ligneo con le tavole dipinte dedicate all’esaltazione dell’Ordine stefaniano e dei suoi successi per mare, che rappresenta senza dubbio la parte più articolata e ricca della chiesa; la serie di cinque tele a monocromo con Storie di santo Stefano papa e martire disposte sulle pareti lunghe e in controfacciata (1588); e infine le bandiere e gli stendardi che, predati nelle battaglie contro i Turchi, evocati nei quadri a soffitto e allestiti fisicamente nella navata insieme ai frammenti delle galee dell’Ordine, ai fanali navali (anch’essi predati tra Cinquecento e Settecento alle navi nemiche), alle bandiere della marina medicea (riconoscibili dall’ampia superficie e dall’alternanza di bande sottili in rosso ed écru, come si vede nell’esemplare montato su asta ed esposto sulla parete destra, al di sopra del frammento ligneo) e a quelle del cavalierato stefaniano (oggi non più allestite in chiesa) rappresentavano le testimonianze tangibili dei successi dei Cavalieri contro gli infedeli. Sulla parete sinistra si trova anche uno stendardo incorniciato, di ignota provenienza, recante ai quattro angoli la Madonna col Bambino (con il capo mozzato dal taglio del tessuto), la Veronica, san Michele arcangelo e san Giovanni Battista, e al centro lo stemma del Regno di Spagna.
L’importanza di tali oggetti, che nel 1751 Pandolfo Titi ancora ben ricordava «presi ne i tempi passati alli babereschi, nemici del nome Cristiano, che servono di parati alle interne pareti [di Santo Stefano]», emerge con chiarezza anche dai carteggi dei granduchi medicei e dei viaggiatori di passaggio in città, come ad esempio John Evelyn, John Raymond o François Maximilien Misson, i quali spesso li descrivono o comunque vi accennano con specifica attenzione. Essi venivano inoltre valorizzati in occasione delle scenografiche cerimonie organizzate dai Cavalieri nella prima domenica dopo Pasqua (la domenica in albis) e registrati in appositi elenchi al momento della consegna all’Ordine, con annessa indicazione del formato, dei colori e delle parti recanti iscrizioni, che non di rado venivano interpretate da esperti linguistici: i cosiddetti Libri delle prede, delle bandiere e degli schiavi, oggi perduti a eccezione del terzo, trascritto a inizio Novecento da Giuseppe Gino Guarnieri presso l’Archivio di Stato di Pisa e poi andato distrutto a Napoli, dove si trovava in prestito per un’esposizione, durante la Seconda Guerra Mondiale.
Il numero di bandiere presenti in chiesa variò nel corso del tempo. Oggi è ridotto a poco più di una sessantina di pezzi. Un documento del 1892, invece, ne contava addirittura «centoquaranta circa, di cui dieci ed alcuni frammenti si trovano nella sacristia della detta chiesa e presentano fra loro varietà per forma, tessuto, colore ed importanza artistica», nonostante molti vessilli avessero perduto il loro aspetto originario a causa dei numerosi interventi conservativi, finendo per assumere la forma di «vergognosi rattoppi fatti con tessuti di qualsiasi qualità, nessuno dei quali si assomiglia nemmeno all’originale né per sostanza né per colore». Eppure, si tratta ancora di una collezione di primaria importanza, testimonianza materiale assai rilevante non solo per la storia dell’Ordine, ma anche per quella mediterranea e islamica, all’interno della quale è possibile distinguere tre gruppi tipologici: il più numeroso è costituito da vessilli in cotone e lino, di colore rosso ed écru o azzurro chiaro, rispettivamente vessilli stefaniani ed esemplari di manifattura turca; un secondo nucleo, di dimensioni maggiori, è invece tessuto in taffetà di seta con decorazioni e iscrizioni (molto rimaneggiate) eseguite a intarsio di sete policrome su fondo chiaro. Si tratta in questo caso degli esemplari più deteriorati della collezione, su cui con ogni probabilità si intervenne in modo massiccio, anche con ridipinture. Appartiene tuttavia alla serie anche una bandiera rifoderata, in condizioni peggiori delle altre (forse perché meno restaurata a causa della sua preziosità), che secondo la tradizione sarebbe stata predata nel 1571 alla nave dell’ammiraglio ottomano Alì Pascià durante la battaglia di Lepanto. Il terzo gruppo, più variegato nelle tipologie e falsificato dai restauri, è infine quello composto in gran parte da stendardi in seta rossa con decorazioni gialle tessute su un solo lato e rappresentanti lune, soli e spade.
Nel corso dell’Ottocento la chiesa dei Cavalieri, simbolo in senso lato delle glorie pisane, fu oggetto di progetti di trasformazione atti – come quello mai portato a compimento dell’architetto Pasquale Poccianti – a renderla una sorta di museo di cimelî, nel quale i corpi laterali già tardo seicenteschi sarebbero stati destinati ad accogliere e custodire i vari trofei. Si procedette inoltre a una serie di restauri, che inclusero il lavaggio, il risarcimento con ricuciture (nel 1851 vi intervenne Mrs. Butler Handcock, irlandese, a cui fu dedicata una lapide tuttora presente in chiesa) e in certi casi anche la ridipintura delle bandiere (quest’ultima ad opera del pittore Santi Neri). L’incompiuto progetto di musealizzazione ottocentesco riprese auge nel Novecento, ottenendo anche il sostegno di Igino Benvenuto Supino. Un gruppo di venti bandiere, selezionate per importanza storica e valore estetico, fu così separato dagli altri e racchiuso entro apposite cornici. La varietà e la disposizione di vessilli, lanterne e frammenti di galee sulle pareti dell’edificio in quel periodo sono documentate da un prezioso album di disegni realizzato nel 1933 da Alfredo Giusiani, che riprodusse a pastello colorato tutti gli oggetti, con accompagnamento di brevi descrizioni.
Nuovi restauri si rivelarono necessari dopo la Seconda Guerra Mondiale, mentre in tempi più recenti, tra gli anni Ottanta e Novanta, si ricorda l’intervento conservativo finanziato dall’allora Cassa di Risparmio di Pisa, con il successivo ricollocamento dei pezzi in chiesa promosso nel 2000 dalla Fondazione Pisa, sulla base di un nuovo progetto allestitivo.
Sul retro del foglio la scritta:
«Trofeo di tre banderuole presso la 2a porta in terra che mette alla seconda cappella della Natività del N. Signore G. C. depintura pregevole di Angelo Allori [sic] detto Bronzino» / «Altro gruppo di tre Bandiere posto presso la 2a Cappella del S. Crocefisso o del SS. Sacramento».
Sul retro del foglio la scritta:
«Stendardo ripiegato nella cornice con cristalli opera pregievole [sic] della manifattura orientale, esso è appeso alla parete di destra entrando in chiesa, non se ne conosce l’anno e il luogo dove fu conquistato».
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