Venere baciata da Amore è un olio su tavola di grandi dimensioni (134 x 194,2 cm) conservato nella Sala degli Stemmi del Palazzo della Carovana dall’aprile del 1929, in deposito permanente dalle Gallerie degli Uffizi di Firenze (inv. 1890-5658). Come per la quasi totalità dei dipinti oggi presenti nella sala, il quadro giunse a Pisa su richiesta di Francesco Arnaldi in occasione del restauro dell’edificio voluto da Giovanni Gentile e condotto da Giovanni Girometti tra il 1928 e il 1933.
La Venere della Carovana, collocabile cronologicamente nella seconda metà del XVI secolo, costituisce una delle sedici derivazioni dalla celeberrima composizione commissionata a Michelangelo e a Pontormo dal banchiere e mercante fiorentino Bartolomeo Bettini tra il 1532 e il 1533. La versione originale, di mano di Pontormo su disegno di Michelangelo, è stata ormai riconosciuta con certezza dalla critica nel dipinto conservato oggi nella Galleria dell’Accademia di Firenze. Come racconta Giorgio Vasari, la tavola era destinata, insieme a tre lunette raffiguranti Dante, Petrarca e Boccaccio affidate al pennello di Agnolo Bronzino, a una camera privata del palazzo fiorentino di Bettini. Il programma iconografico dell’ambiente prevedeva pertanto una raffigurazione allegorica dell’Amore e dei poeti toscani che lo avevano sommamente cantato. Dei dipinti di Bronzino si conserva solo il Dante, agli Uffizi – di cui è nota anche una copia oggi a Washington, DC –, mentre è stata recentemente riconosciuta una copia antica del Petrarca in collezione privata.
La commissione di Bettini si inseriva nel solco virtuoso della collaborazione tra Michelangelo e Pontormo, inaugurata poco prima dall’altrettanto celebre tavola raffigurante un Noli me tangere, eseguita per Vittoria Colonna, marchesa di Pescara, per tramite del marchese del Vasto. L’acquisto coatto della Venere e Amore da parte del duca Alessandro de’ Medici nel 1534 direttamente dalle mani del Pontormo, tuttavia, impedì che la tavola giungesse nella casa del suo committente, cui venne invece restituito il cartone di Michelangelo.
Bettini, di deciso orientamento repubblicano, aveva partecipato attivamente alla costituzione della Repubblica nella città gigliata durante gli anni immediatamente precedenti alla commissione (1527-1530) e aveva pertanto subito l’ostracismo del ristabilito governo mediceo del duca Alessandro. Costretto a trasferirsi a Roma, dov’è ricordato già nel 1536, lasciò il cartone preparatorio per la Venere a Firenze, dove infatti Vasari lo ricorda nel 1568: tutto questo favorì il successo e la diffusione del modello michelangiolesco nell’ambiente accademico fiorentino prima, e nel resto della Penisola poi. Vasari stesso ne eseguì almeno quattro versioni.
La tavola dipinta dal Pontormo, invece, è registrata a più riprese negli inventari medicei cinquecenteschi (1553, 1554, 1555). Riemersa dai depositi degli Uffizi soltanto nel 1850 dopo un lungo periodo di oblio, fu restaurata e ripulita dei panneggi che erano stati aggiunti ab antiquo per coprire le nudità di Venere. Da allora, numerosi studi sono stati dedicati al dipinto, alle circostanze della sua realizzazione e, naturalmente, alla classificazione delle numerose versioni, copie e derivazioni, che sono stati distinti dalla critica in almeno tre filoni: il primo, detto ‘Londra’ in riferimento alla tavola conservata a Kensington Palace, è più fedele all’originale; il secondo, cui si ascrive anche il quadro nel Palazzo della Carovana, è stato denominato ‘Napoli’ perché ha come prototipo una versione conservata al Museo Nazionale di Capodimonte, alternativamente attribuita a Vasari o a un pittore della sua cerchia, che si discosta leggermente dal modello dell’Accademia per alcune piccole ma significative variazioni; il terzo filone di generiche ‘varianti’ raggruppa, infine, le copie che si discostano più arditamente dal modello Michelangelo-Pontormo.
In particolare, nel dipinto conservato a Pisa le figure appaiono meno compatte rispetto al quadro dell’Accademia, la cui cornice cade quasi a filo sul contorno dei corpi e degli oggetti, che risultano quindi gli assoluti protagonisti della scena. È stato ipotizzato dalla critica che nel cartone di Michelangelo comparissero soltanto le figure, e che quindi l’invenzione del paesaggio vada ricondotta al Pontormo. L’autore della copia pisana ha inoltre voluto suggerire un’ambientazione crepuscolare, colorando il cielo di quei toni rosati così vividamente emersi dal recente restauro nei primi anni Duemila. Gli oggetti simbolici sulla sinistra della tavola, anche qualora non fossero già tracciati nel cartone, dovettero essere dipinti da Pontormo su specifiche indicazioni di Michelangelo. Le due maschere, l’arco con le frecce, il vaso con le rose e il fantoccio, distribuiti all’interno e al di sopra di un’ara, simboleggiano la caducità dell’amore e senz’altro appartengono al lessico dell’artista.
Gli studi più recenti hanno individuato nell’Amor fuggitivo di Mosco – piuttosto che nelle Metamorfosi di Ovidio, come si è talvolta ritenuto – il riferimento letterario a cui è ispirata la composizione pittorica. L’idillio, tradotto da Marsilio Ficino e poi da Benedetto Varchi, personaggio di rilievo nella Firenze dell’epoca nonché prossimo a Bettini, narra dell’antagonismo tra Venere e Cupido, ritratto nel quadro mentre tenta subdolamente di colpire la madre con un dardo. Stando a questa lettura, nel dipinto è messo in scena il contrasto tra l’amore sensuale, carnale e terreno, rappresentato da Cupido e dagli oggetti caduchi, e l’amore spirituale, incarnato invece da Venere nuda, pura e possente.
Il dettaglio per cui tutte le derivazioni si discostano dall’esemplare dell’Accademia è lo sguardo di Cupido, che nel dipinto originale sfugge all’indietro per appuntarsi sul dardo, come a voler sottolineare il carattere ingannevole dell’azione, mentre nelle altre versioni è in direzione di Venere. In considerazione della prima destinazione dell’opera, il suo significato è stato talvolta interpretato come l’espressione della volontà di Bettini di far riprodurre, nella propria camera, la terza sfera del Paradiso dantesco, che era dominata dal pianeta Venere e alla quale appartenevano i poeti che cantarono l’amore.
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