Pirez de Évora, La Verità

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Alvaro Pirez de Évora

La Verità

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frammento di affresco

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Foto di Giandonato Tartarelli. ©️ Scuola Normale Superiore
Carovana – Aula Bianchi – affresco Verità – Tartarelli – DSC01153
Alvaro Pirez de Évora, La Verità, probabilmente terzo/quarto decennio del XV secolo. Pisa, Palazzo della Carovana, Aula Bianchi

Il frammento di affresco visibile nell’attuale Aula Bianchi (la parte indicata come ‘Bianchi Scienze’), al primo piano del Palazzo dei Cavalieri, si distingue dalle altre poche tracce della decorazione parietale medievale del palazzo tanto per la particolarità del tema iconografico, quanto per la sottigliezza d’esecuzione e la qualità artistica.

Vi compare una giovane donna, con il collo flessuoso e le spalle nude, il capo coperto da un sottile velo trasparente, che si staglia su un fondo rosso ornato a motivi fitomorfi. Al di sopra della figura si srotola un cartiglio che reca la seguente iscrizione: “VERITÀ SONO LEALE PURA E TONDA / CHE SEMPRE TENGO MIA BAC[C]HETA MONDA”. Alla destra, invece, si intravvede una sorta di asta, evidentemente quanto resta della «bacchetta» allusa nel cartiglio. La nudità della figura e, soprattutto, l’iscrizione in volgare, hanno permesso di identificare il soggetto con una rappresentazione allegorica della Verità, che, come nota Vittoria Camelliti, forse era effigiata a figura intera, nell’atto di strappare la lingua a una personificazione della Bugia. È questa, infatti, un’iconografia codificata, nota a partire dall’età romanica, quando è attestata da un rilievo murato all’esterno della cattedrale di Modena. Per il frammento pisano il riferimento più prossimo e interessante è una perduta Verità affrescata da Taddeo Gaddi nel Tribunale della Mercanzia di Firenze e ricordata da Giorgio Vasari. Lo storiografo aretino ne descrisse il soggetto – “il tribunale di sei uomini, che tanti sono i principali di quel magistrato, che sta a veder cavar la lingua alla Bugia dalla Verità, la quale è vestita di velo su l’ignudo, a la Bugia coperta di nero” –, trascrivendo anche l’epigrafe che commentava il soggetto: “La pura verità per ubbidire / Alla santa Giustizia che non tarda / Cava la lingua alla falsa Bugiarda”.

A ben vedere, non c’è nessuna certezza che il soggetto a Pisa presentasse gli stessi connotati, giacché il testo del cartiglio è diverso da quello illustrato da Vasari e, soprattutto, non vi è fatto cenno alla presenza della Bugia, che quindi forse non compariva. Il precedente gaddiano, tuttavia, può essere preso come valido termine di riferimento e prototipo, ad esempio, per l’attributo della nudità appena velata. Come ha scritto Maria Monica Donato, la Verità di Pisa si inserisce in una tradizione di iconografia politica già collaudata, abitualmente connessa ad ambienti semi-esterni, come  la corte, o chiostro, del palazzo. Così traspare anche dalle parole del Filarete. L’artista e trattatista, nella ricerca di un soggetto che si confaccia al cortile del palazzo podestarile della sua città ideale, Sforzinda, suggerisce “la Verità e la Bugia, perché questo è luogo dove ha a essere gastigata la bugia e’ malfattori”. Non mancano, del resto, esempi ancora integri di affreschi esprimenti la Verità calati nei cortili dei palazzi del potere, sebbene più tardi: si ricordi l’affresco con il Giudice fra Verità e Menzogna nel Palazzo Comunale di San Gimignano, opera del XVI secolo; un soggetto similare, anche nella datazione, era nel Palazzo dei Vicari di Certaldo, dove, tuttavia, non è più leggibile.

Queste considerazioni risultano particolarmente importanti alla luce di una recente proposta. Il frammento, che fu rinvenuto in occasione dei lavori scalati fra il 1979 e il 1980, poco sopra al livello del pavimento dell’Aula Bianchi, è probabile che facesse originariamente parte di un ciclo di figure allegoriche disposte sulle lunette delle pareti di una loggia effettivamente aperta verso l’esterno, forse voltata, e dunque coerente con la tradizione iconografica anche nell’ubicazione. Come ha suggerito Virginia Grossi, infatti, l’ambiente in questione dovrebbe coincidere con una loggia attestata all’inizio del Quattrocento: un grande spazio che, nell’assetto medievale dell’edificio, occupava l’angolata nord-occidentale e si articolava attorno a un poderoso pilastro a sezione circolare del quale è ancora visibile la parte inferiore al piano terreno nella cosiddetta Sala della Colonna, ora in uso dalla Biblioteca.

Sia lo stile sia i simboli inclusi nella cornice – una croce rossa in campo bianco e, forse, un giglio – fanno propendere per una datazione al periodo successivo alla definitiva sottomissione a Firenze nel 1406. Come è stato notato, nuovamente, da Camelliti, c’è una particolare affinità fra i modi del pittore dell’affresco in questione e quelli di Alvaro Pirez de Évora, al quale il frammento può essere attribuito senz’altro. Il pittore, di origine portoghese, completò probabilmente la sua formazione a Pisa nel primo decennio del Quattrocento ed ebbe precoci contatti con i pittori dell’ambiente lucchese e fiorentino. La sua arte risente in particolar modo della lezione di Gherardo Starnina, campione del linguaggio tardo-gotico in Toscana, all’indomani di un soggiorno spagnolo protrattosi fino al 1402. Nella parabola di Alvaro Pirez, la fase stilistica che più si avvicina alla Verità di Pisa è quella avanzata, a cavallo fra terzo e quarto decennio del Quattrocento, nella quale i modi calligrafici e taglienti delle sue prime opere si stemperano in una materia più dolce e fusa. Vero è che l’affresco di Pisa è ridotto al solo busto della Verità, ma proprio questo brano si offre al confronto con il volto della Vergine nel finissimo trittico firmato e datato 1434 (Brunswick, Herzog Anton Ulrich-Museum), ultima attestazione cronologica del percorso del pittore. Ben più numerosi, nel palazzo, erano gli affreschi a soggetto profano intesi ad ammonire o a rammentare ai magistrati il loro dovere e le virtù da seguire; di alcuni di essi, posteriori rispetto alla Verità, affiorarono i frammenti in occasione della campagna di restauri del 1929. In particolare, spiccava un frammento di pitture a soggetto architettonico, ora non più rintracciabile, che mostrava sul fregio di una trabeazione l’iscrizione “DILIGITE IUSTITIAM”, da completare con “QUI IUDICATIS TERRAM”: un precetto biblico (Sapienza, I, 1) molto comune negli ambienti in cui veniva amministrata la giustizia.

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Foto di Giandonato Tartarelli. ©️ Scuola Normale Superiore
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