Nel 1564, a seguito dell’apposizione degli stemmi mediceo-stefaniani sul fronte e sugli spigoli della facciata del Palazzo della Carovana, si diede inizio alla decorazione a graffito – una tecnica molto in voga nella Toscana medicea – dell’intera superficie del fronte. Il complesso programma iconografico venne ideato da Giorgio Vasari con il supporto di alcuni letterati fiorentini: Pier Vettori, Benedetto Varchi e Vincenzio Borghini. La decorazione venne eseguita tra l’autunno del 1564 e il 1566 dai pittori Tommaso di Battista del Verrocchio (responsabile anche dei cartoni e degli spolveri) e Alessandro Forzori da Arezzo sulla base dei disegni forniti da Vasari. L’artista, contemporaneamente impegnato nel coordinamento del cantiere del Salone dei Cinquecento a Palazzo Vecchio a Firenze, si servì in loco della collaborazione con il nobile anconetano e cavaliere di Santo Stefano Leonardo Marinozzi. A costui spettò il compito di sovrintendere il lavoro dei due giovani artisti ed erogarne i pagamenti.
Il programma iconografico subì nell’arco di breve tempo diversi assestamenti: nel settembre del 1564 Vasari dismetteva un primo disegno, di cui era rimasto insoddisfatto, e ne principiava un secondo. Nel frattempo si adoperava nella ricerca degli artisti che avrebbero eseguito l’opera. A novembre, in una lettera consegnata a Marinozzi proprio da Tommaso di Battista, Vasari riportava i nomi dei due pittori coinvolti, chiarendo di essersi accordato per una paga di otto scudi mensili ciascuno, da corrispondere in tranches settimanali, escluso il saldo finale. Prescriveva che Tommaso, il primo a iniziare giacché Alessandro aveva impegni pregressi, alloggiasse nel Palazzo della Carovana o nelle immediate vicinanze in modo da poter lavorare il più velocemente possibile. La prima cosa che avrebbe dovuto fare era l’esecuzione dei «cartoni» e degli «spolveri» – il sistema atto a trasferire su muro i disegni in piccolo del maestro aretino – poi tradotti a graffito da Tommaso e Alessandro. Vasari raccomandava inoltre a Marinozzi che un muratore esperto preparasse l’intonaco della facciata («che non le faccia a bernocholi»), affidando i due giovani – che aveva faticato a convincere a trasferirsi a Pisa e di cui si era privato per i lavori a Palazzo Vecchio – alle cure del nobile anconetano, responsabile anche della qualità dei materiali («calcine» e «rena del Serchio»). Neanche il secondo disegno della decorazione risultò da subito del tutto soddisfacente se, dopo averlo concluso, Vasari sottoponeva ancora a Marinozzi il problema delle «teste» da inserire tra le finestre del secondo e del terzo piano: si pensò prima alle effigi di imperatori e poi a quelle dei fondatori di sei ordini cavallereschi (compreso ovviamente quello neonato di Santo Stefano), che si sarebbero dovute alternare a iscrizioni, dialogando con le raffigurazioni graffite dei santi venerati dai rispettivi ordini. Il progetto dei fondatori (non è del tutto chiaro se previsto in marmo o su muro) venne accantonato e con esso le dipendenti immagini dei santi, portando alla messa a punto dell’iconografia definitiva e, anni dopo, all’erezione dei busti di granduchi e gran maestri dell’Ordine.
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