La costruzione dell’acquedotto di Pisa, «opera prope divina» (‘opera quasi divina’), come la definì nel 1597 il forlivese Girolamo Mercuriale – lettore di Medicina presso l’Ateneo locale, medico personale del granduca Ferdinando I de’ Medici e autore, su diretta commissione di quest’ultimo, di un trattato celebrativo dedicato proprio alle portentose acque pisane –, si rivelò di estrema importanza per il territorio, fino a quel momento gravato da continui problemi di approvvigionamento idrico. Già Cosimo I aveva pensato di portare in città le acque di sorgente dei Monti Pisani, avviando nella valle di Asciano, nei pressi di San Giuliano Terme (località servita dall’antico acquedotto romano di Caldaccoli), una serie di lavori poi interrotti per problemi di natura strutturale e lasciati incompiuti. L’opera patrocinata da Ferdinando, che andò dunque a recuperare un’idea di rinnovo infrastrutturale che già era stata del padre, fu affidata inizialmente (forse sotto la supervisione di Bernardo Buontalenti) all’architetto Raffaello di Zanobi di Pagno (in seguito attivo nel Palazzo dei Dodici), nominato nel 1588 capomastro dell’Ufficio dei Fiumi e Fossi e protagonista in prima persona di numerosi sopralluoghi di studio ad Asciano. I lavori presero ufficialmente avvio nel 1592, prevedendo l’innesto di una condotta sopraelevata che canalizzava le acque di diverse sorgive entro tubi sotterranei terminanti in una serie di ‘bottini’ di depurazione, attraverso i quali esse confluivano nel cosiddetto ‘gran cisternone’, un ambiente destinato a raccogliere un deposito idrico in grado di supplire a dodici ore di mancanza d’acqua in città. Al fine di garantire stabilità di fondi alla fabbrica, Ferdinando le destinò le entrate derivanti dalla servitù (una tassa) prevista per il taglio dei pini, i cui tronchi servirono di sostegno alle erigende strutture dell’acquedotto. Le attività procedettero così senza intoppi e a pieno ritmo; al di sopra dei pali lignei che affondavano nel terreno fangoso si alzavano i poderosi pilastri d’appoggio, realizzati in muratura, sormontati da archi a tutto sesto in mattoni che inglobavano le canalette di passaggio delle acque, coperte da lastre in pietra e sottratte in questo modo sia al sole diretto che alla polvere e agli altri agenti atmosferici. Il tutto per un totale di 954 archi e circa 6 chilometri di estensione.
La tenuta dell’acquedotto, ultimato nel 1595, fu tuttavia presto gravata dall’instabilità e dagli inevitabili assestamenti del terreno, in gran parte paludoso, su cui sorgeva, che misero a dura prova alcuni degli archi lungo il percorso, ma anche da errori di progettazione che causarono in più punti il ristagno delle acque, con una notevole riduzione della portata del getto che raggiungeva effettivamente la città. I primi aggiustamenti furono eseguiti per volere di Cosimo II de’ Medici e portati a termine nel 1613 con la ricostruzione della cosiddetta ‘Conserva grande’, anche nota come ‘il Casone’, nella quale confluivano i condotti provenienti da tutte le polle acquifere e dove viveva il fontaniere, incaricato di custodire le chiavi di regolazione dei flussi e di supervisionare il corretto funzionamento e la pulizia di tutto l’impianto. Alcune iscrizioni, tuttora leggibili sulla facciata del fabbricato, ricordano il contributo economico dei pisani (che resero possibile la costruzione dell’acquedotto grazie al pagamento di una tassa sul sale) e gli interventi di sistemazione cosimiani:
«POPULI PISANI SALUBRITATI / CONSULENS / PROVIDENTIA PUBLICA»
«ACQUAEDUCTUM A FERDINANDO / MAGNO DUCE ETRURIAE III / SALUBRITATI URBIS / INCHOATUM / COSMUS II. MAGN. DUX III / PERFECIT ANNO MDCXIII»
Questi, tuttavia, non bastarono a risolvere la situazione, in particolare sul piano statico, e fu quindi necessario procedere nei decenni seguenti, a più riprese, con interventi di varia natura che inclusero riparazioni, raschiamenti dei depositi calcarei e sostituzione di alcuni archi, modificati anche nella forma. A Pisa, l’acquedotto trovava il suo termine nella fontana pubblica di Piazza delle Gondole, nei pressi di Santa Marta, proseguendo poi per via sotterranea verso la fonte di San Francesco, nell’attuale Piazza Alessandro D’Ancona, e giungendo infine in Piazza dei Cavalieri, dove sgorgava nel bacile della cosiddetta ‘fontana del Gobbo’, ai piedi del monumento al granduca Cosimo I de’ Medici di Pietro Francavilla. Le acque di scarto confluivano da qui verso una fonte minore, oggi non più esistente, sita nei pressi del Palazzo dello Stellino (attuale Palazzo Boilleau, in Piazza Cavallotti), giungendo infine a bagnare il vicino Orto dei Semplici. Varie altre fontane pisane, compresa quella dei putti in Piazza del Duomo, erano alimentate dall’acqua medicea, che raggiungeva anche le stalle del Palazzo della Carovana e le nuove stalle site lungo l’attuale via dei Martiri.
La responsabilità per l’approvvigionamento e la distribuzione delle acque spettò in principio all’Ordine di Santo Stefano, che ne deteneva la proprietà per conto del granduca regnante, ma a partire dal 1626 passò sotto la giurisdizione dell’Ufficio dei Fiumi e Fossi, che diede inizio alla vendita dell’acqua alla cittadinanza: un fatto che, con l’approvazione di Ferdinando II de’ Medici siglata nel maggio 1627, portò alla nascita delle prime fontane private. Negli anni a venire, il numero delle fonti collegate all’acquedotto crebbe notevolmente e l’addizione di nuove diramazioni ne estese la portata, arrivando a servire i lungarni. In epoca lorenese proseguì l’attenzione dei regnanti alla preservazione dell’acquedotto, tutelato anche con specifiche normative, come quella che impediva il taglio dei pini nella Valle delle Fonti di Asciano Pisano, perché necessari alla sopravvivenza delle falde (motu proprio a firma del granduca Pietro Leopoldo del 27 giugno 1780), né furono trascurati ulteriori lavori di potenziamento infrastrutturale.
Nel 1861 l’acquedotto mediceo passò definitivamente al Comune di Pisa, ma gli anni di grave siccità che avevano caratterizzato l’inizio del secolo avevano determinato un netto calo di portata; si provvide dunque all’allaccio di nuove sorgenti attraverso tubature in ghisa convogliate, insieme ad alcune delle precedenti, in un nuovo serbatoio detto ‘la Guglia’, da cui si diparte tuttora il condotto per Pisa. La fornitura idrica della città è stata tuttavia garantita in epoca moderna dall’addizione, nel 1925, del nuovo acquedotto di Filettole, nella valle del fiume Serchio, in grado di servire anche le zone limitrofe, arrivando fino a Livorno.
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