Allestita dal 2012 sulla parete sinistra della Sala Azzurra, al secondo piano del Palazzo della Carovana, Sic erat in fatis? (Collezione Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci, Prato, inv. n. 445; ingresso nel museo nel 2006) è una serigrafia su plexiglass retroilluminato di circa un metro di lato, realizzata nel 1972 dell’artista fiorentino Eugenio Miccini (1925-2007). Già membro del Gruppo 63 e co-fondatore del Gruppo 70, animatore del Centro Tèchne e direttore editoriale di «Lotta Poetica», Miccini è stato tra i principali esponenti della Poesia visiva e, più in generale, dell’editoria sperimentale italiana.
In Sic erat in fatis? l’artista interviene su un planisfero celeste aggiungendo una stella rossa a cinque punte e la scritta «GLI DEI NON AMANO IL DISORDINE». Il titolo dell’opera è prelevato dai Fasti di Ovidio e può essere reso “così era [scritto] nel destino”. Formatosi in seminario e con trascorsi di poeta neolatino, Miccini non era nuovo a simili appropriazioni. Aveva già ideato, infatti, una serie di rebus con titoli come «ex iniquis REBUS gloriosæ res gestæ» o «ex iniquis REBUS iniquæ res», da sciogliere rispettivamente come «battaglia antifascista» e «bombardate New York»: giochi serissimi in cui l’aspetto ludico era inscindibile dal contenuto ideologico. I principali riferimenti di Sic erat in fatis? possono essere rintracciati in uno scritto dell’artista del 1970 (Sopra la città la notte), raccolto l’anno successivo nel volume Poésie est violence:
«High life / non qui si cercano nello Zodiaco segni futuri: vivere sprint con la forza dei nervi / un pugno di ferro e quel fastidioso mal di testa: una costellazione (dicevamo) artificiale: la VIOLENZA (con tante stelle che ci sono, un oroscopo-shock) amici, siamo stati incognite x y z, siamo usciti (?) dalle equazioni io tu noi voi gli elementi del disordine / diciamolo francamente tutti amano il caos, tutti meno me che sacerdote/spia/poliziotto/capitalista/imbecille prego da non importa se cattedra o pulpito o trono o tugurio: “voi non amate l’ordine”».
All’interno di una «costellazione artificiale», combattendo l’oppressione istituzionale e le ‘forze dell’ordine’, Miccini individuava uno spazio di autonomia in cui accogliere e collocare il ‘disordine’, invalso agli Dei e rappresentato da quell’unica stella rossa. Adottata come simbolo comunista sin dagli inizi del Novecento, riaffiorata nei vessilli di alcune formazioni partigiane, nell’Italia del 1972 la stella rossa a cinque punte era associabile innanzitutto alle organizzazioni autonome di estrema sinistra. In particolare, nel marzo del 1972, il sequestro del dirigente della Sit Siemens Idalgo Macchiarini aveva offerto alle Brigate Rosse e al loro simbolo un primo, ridotto momento di esposizione mediatica. Tale associazione risuonò probabilmente nella mente di molti osservatori dell’epoca, nonostante la vicenda politica e la consapevolezza ideologica di Miccini rendano più probabile un impiego del simbolo indipendente dalla contingenza più stretta.
Come l’intera produzione di Miccini, Sic erat in fatis? era animata da precisi intenti militanti, condensati in un efficace gioco linguistico, veicolato da un dispositivo visivo aggiornato sui più recenti sviluppi dell’arte contemporanea: «La poesia visiva, dunque, è guerriglia: e, in quanto tale, si serve non solo della parola o dell’immagine, ma anche della luce, del gesto, insomma di tutti gli strumenti “visibili” del comunicare».
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