JCJ VANDERHEYDEN, Studio

Carovana – Interno – Pecci – Poirier – Domingie

JCJ VANDERHEYDEN

Studio

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Foto di Serge Domingie. ©️ Centro Pecci, Prato
Carovana – Interno – Pecci – JCJ Vanderheyden – Domingie
JCJ VANDERHEYDEN, Studio, 2004. Pisa, Palazzo della Carovana, secondo piano, corridoio

Allestita dal 2021 sulla parete sinistra del corridoio al secondo piano di accesso allo scalone a due rampe del Palazzo della Carovana, l’opera Studio (Collezione Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci, Prato, inv. n. 494; ingresso nel museo nel 2006 per comodato della Fondazione Cassa di Risparmio di Prato) dell’olandese Jacobus Cornelis Johannes van der Heyden (1928-2012) è giunta nel 2005 al Centro Pecci in occasione della mostra diffusa intitolata Territoria. Si tratta di una stampa a getto di inchiostro su tela (130 x 195 cm) databile alla fine del 2004.

Eseguito nel 1995 da un collaboratore dell’artista (Frans de la Cousine) e considerato negli anni successivi addirittura summa esemplare dell’ultimo periodo della produzione di Van der Heyden, lo scatto originale alla base di Studio era già stato utilizzato dall’artista per illustrazioni e opere di formato maggiore, come quella di oltre tre metri di lunghezza inviata ad Amsterdam per la retrospettiva del 2001, esposta a stretto confronto con ingrandimenti e montaggi da opere di Johannes Vermeer e da Las Meninas di Diego Velázquez. Già dal 1983 l’artista aveva iniziato a dialogare con gli antichi maestri, e in particolare i due pittori seicenteschi che, con i loro interni e soprattutto la loro ‘pittura al quadrato’, rappresentarono una fonte importante nella rappresentazione che Van der Heyden dette del proprio atelier. Fotografato ripetutamente già dal 1967, nei diversi affollamenti di opere (sul modello delle fotografie di atelier di Costantin Brâncuși e di Barnett Newman), nonché ricostruito in installazione nelle sue mostre personali, lo studio veniva elevato a luogo di riflessione sull’intero della propria produzione artistica in perenne divenire, oggetto di un potenziale continuo ripensamento. Per sua ammissione, fu per sottolineare il distacco tra il sé biografico e il proprio corpus che l’artista iniziò in tarda età ad adottare lo pseudonimo JCJ VANDERHEYDEN.

In Studio, tra le tante tracce del lavoro d’artista (telai, colori e dipinti di piccolo formato), è centrale per la riflessione meta-fotografica la presenza di un’attrezzatura video elettronica (con cui Van der Heyden aveva condotto diverse sperimentazioni durante gli anni Settanta), che inquadra in circuito chiuso due stampe fotografiche di grande formato, a destra e sul fondo. L’artista stesso si immortala allo specchio senza mostrarci il volto nella prima, dove l’esile passe-partout bianco a forma di pi greco è un rimando al suo periodo giovanile e oggettuale. La seconda fotografia, decentrata ma dominante, rappresenta una grande nube inquadrata dal finestrino di un aeroplano: un soggetto tipico della produzione più tarda, a partire dal libro d’artista derivato da viaggi in estremo Oriente sul finire degli anni Settanta, intitolato Himalaya (1981). Alcuni artifici, come la tenda su cui si stagliano le mani dell’artista in lettura, il colore opaco del getto d’inchiostro, la leggibilissima trama della tela o lo specchio convesso, quasi memoria dei Coniugi Arnolfini di Jan Van Eyck, collocano l’opera in esplicito confronto con la pittura antica. Anche la gerarchia prospettica e l’uso sapiente dell’illuminazione, proveniente da una fonte naturale nella zona più arretrata della figurazione, derivano probabilmente dall’Allegoria della Pittura di Vermeer, oggi a Vienna.

Rimane la domanda centrale posta dal critico Dieter Roelstraete: «Lo studio è ‘dentro’ o ‘fuori’? Un dipinto (o il suo equivalente moderno – una stampa fotografica di grande formato, vale a dire una stampa pittorica) è una finestra su un mondo fuori dallo studio? O è piuttosto ‘solamente’ […] l’antipodo simbolico del soggetto d’interni preso in prestito da Vermeer e Velázquez?».

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